venerdì, Marzo 29, 2024

Migranti del mare: commemorati ma ancora respinti. La Chiesa resta in prima linea

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).
ROMA-ADISTA. Il 3 ottobre 2013, nel mare di Lampedusa, 368 persone in fuga da guerra e miseria naufragavano tragicamente nel tentativo di raggiungere la porta d’Europa a bordo di una carretta del mare. Prima di una lunga serie di stragi in mare aperto, in seguito all’uccisione del colonnello Mu’ammar Gheddafi e allo sfaldamento del sistema politico e istituzionale libico. Sicuramente quella che maggiormente ha segnato profondamente l’immaginario collettivo, tanto che tre anni dopo, proprio per commemorare quel naufragio, è stata indetta in Italia una Giornata Nazionale in Memoria delle Vittime dell’Immigrazione, che si celebra ogni anno appunto il 3 ottobre.
C’è da dire che, a distanza di anni, il mondo politico e l’opinione pubblica sembrano essersi parecchio assuefatti alle morti in mare di uomini, donne e bambini, e anzi oggi – mentre l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati parla di 15mila scomparsi nel grande cimitero che è ormai il Mediterraneo – a prevalere sembrano proprio i sentimenti di paura e rifiuto, con una crescente domanda di contenimento (fomentata dai media e raccolta dalla politica), disposta anche a chiudere un occhio di fronte alle condizioni di vita dei migranti e al rispetto dei loro diritti.
Ancora morti
Secondo i sopravvissuti, soccorsi dalla guardia costiera di Tripoli, almeno 100 persone sarebbero scomparse al largo di Zuara (Libia) a metà settembre, mentre affrontavano il Canale di Sicilia su un barcone di legno. Ancora una strage nel Mediterraneo, passata alla cronaca come la prima dopo gli accordi con la Libia che avrebbero drasticamente ridotto le traversate del mare verso l’Italia. Dopo il recente naufragio i gesuiti del Centro Astalli hanno denunciato l’«inadeguatezza delle politiche europee sulle migrazioni», chiedendo un cambio di passo che metta al centro la vita delle persone in fuga più che le ansie di quelle che accolgono. Le politiche di contenimento, appaltato per lo più a Paesi terzi lautamente ricompensati per frenare i flussi, possono chiudere delle rotte, ma spostano altrove il “problema”, accrescendo i pericoli e la vulnerabilità di chi parte. Tali accordi bilaterali, ribadiscono i gesuiti, «anche se hanno ridotto rapidamente il numero degli arrivi non hanno cambiato nella sostanza fenomeni troppo complessi da essere risolti nell’immediato». Il Centro Astalli chiede quindi l’apertura di canali legali e sicuri per approdare in Europa, l’interruzione degli accordi con i Paesi che non rispettano i diritti umani e il diritto d’asilo, il ripristino di un programma di ricerca e salvataggio dei naufraghi in mare. Quella dei visti umanitari per i rifugiati è un’esperienza vincente che, d’altro canto, in Italia è già stata sperimentata, e lo sottolinea la Comunità di Sant’Egidio in occasione della Giornata della memoria: il progetto pilota dei “Corridoi umanitari”, realizzato insieme alle Chiese protestanti, ha già «portato in sicurezza, per chi arriva e per chi accoglie, circa 900 profughi siriani dal Libano, in un progetto che favorisce in modo evidente l’integrazione».
Giornata dell’ipocrisia?
Il 3 ottobre dovrebbe essere «un giorno di riflessione e d’impegno, soprattutto nelle scuole», afferma il giorno prima la presidente dell’Arci, Francesca Chiavacci, «per offrire un’occasione a bambine e bambini, ragazze e ragazzi per capire e crescere in un mondo che non sia solo caratterizzato da egoismo e violenza. È uno spiraglio, una possibilità di contribuire a costruire la solidarietà che manca, che spieghi che quelle persone morte hanno un nome e una storia, che sono loro che avremmo dovuto proteggere, non i confini». Inutile però celebrare la Giornata se poi le politiche migratorie del Paese continuano ad essere improntate alla chiusura e agli accordi con Paesi terzi come la Libia, denuncia la presidente Arci. Italia e Ue pagano per frenare i flussi, «senza preoccuparsi delle condizioni di degrado in cui vengono tenute le persone fermate o intercettate. Torture, stupri, violenze di ogni tipo sono quotidianamente consumate in veri e propri centri-lager, gestiti spesso da quelle stesse bande armate che speculavano sul traffico di esseri umani. Una vergogna, un imbarbarimento che mette a rischio la stessa civiltà del nostro continente». Anche il Centro Astalli ribadisce che «fare memoria è un atto dovuto, ma se non diviene atto di responsabilità è vano».
«Con le braccia ben aperte»
Resta comunque un dato sul quale si giocano gli equilibri tra i partiti, le logiche elettorali e, di conseguenza, le politiche di accoglienza e integrazione: la paura dello straniero, per lo più costruita ad arte, presso le comunità locali, che affrontano fenomeni nuovi senza il sostegno istituzionale e privi di corrette chiavi di lettura. «Il viaggio si fa in due», ha sottolineato papa Francesco nell’udienza generale del 27 settembre, di fronte ai rappresentanti delle Caritas, ai migranti e alle associazioni della società civile impegnate nella tutela dei diritti dei migranti: «Quelli che vengono nella nostra terra, e noi che andiamo verso il loro cuore per capirli, capire la loro cultura, la loro lingua». «Cristo stesso ci chiede di accogliere i nostri fratelli e sorelle migranti e rifugiati con le braccia ben aperte», ha poi aggiunto. L’udienza generale è sembrata a Francesco l’occasione ideale per rinnovare la propria solidarietà alle associazioni che – insieme a organismi ecclesiali come Fondazione Migrantes della Cei, la stessa Caritas italiana, la Comunità di Sant’Egidio e il Centro Astalli – hanno promosso la Campagna “Ero straniero-L’umanità che fa bene”, per una legge di iniziativa popolare capace di superare la Bossi-Fini puntando su accoglienza, inclusione, integrazione e lavoro (v. Adista Notizie n. 16/17).
“Condividi il viaggio”
L’udienza papale è stata anche l’inizio ufficiale della campagna di Caritas Internationalis “Share the journey-Condividi il viaggio”, con la quale tutte le Caritas del mondo decidono di attivarsi per promuovere l’incontro tra comunità d’accoglienza e stranieri. È convinzione profonda della Caritas che la conoscenza personale e diretta di chi emigra, della sua vita, delle sue ragioni e motivazioni profonde, sia l’unico strumento capace di «dissipare la paura» e il pregiudizio, prodotto e accresciuto in astratto, fuori da una conoscenza reale. Infatti, «i migranti non sono statistiche, non sono numeri, ma persone» tra le più vulnerabili, e il mandato del Signore (anche nell’Antico Testamento) è di proteggerle, ha sottolineato il card. Luis Antonio Tagle (presidente di Caritas Internationalis), presentando l’iniziativa in un’intervista a Radio Vaticana (25/9). «Prima di costruire i muri fisici, c’è un muro che è giù stato costruito: quello della mentalità», chiarisce Tagle: «Questa campagna della Caritas è un appello alla conversione, al cambiamento di mentalità tramite gli incontri personali, perché quando incontriamo un migrante come persona, faccia a faccia, una di fronte all’altra, i miei occhi si aprono; non vedo solo una statistica o un numero, ma una persona vera che è un fratello, una sorella, un mio prossimo». Insomma, conclude, “umanizzare” il fenomeno: «È in questo modo che comincia il cambiamento di mentalità: crolla il muro e si costruisce il ponte».
(Giampaolo Petrucci, Adista Notizie n° 35 del 14/10/2017)
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