giovedì, Aprile 25, 2024

Il Buon Pastore (Gv 10,11-18)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).
Il brano di Vangelo proposto dalla Liturgia di oggi ci stimola a riflettere sui modelli di maternità e paternità che adottiamo e, di conseguenza, sulla qualità delle relazioni che sappiamo instaurare. 
Che cosa significa essere padre e madre nella società sempre più liquida e post-cristiana, società in cui non solo è sempre più difficile decidersi per qualcosa di definitivo, ma anche identificarsi?  

Il teologo Armando Matteo, alcuni anni fa, faceva notare come la prima generazione incredula, vale a dire i diciottenni attuali, sono stati i primi ad avere dei padri e delle madri che non hanno trasmesso loro la fede. Invece, infatti, di preoccuparsi di dire Dio ai loro figli, hanno pensato a loro stessi, sono stati per così dire, utilizzando la metafora del Vangelo, dei mercenari.
Lo psicoterapeuta Massimo Recalcati nei saggi Le mani della madre e Il ritorno del padre, evidenzia la difficoltà che oggi gli adulti hanno di assumere il loro ruolo. Mentre la donna fa sempre più fatica ad identificarsi totalmente nel ruolo di madre (finalmente!) come avveniva un tempo, entrando a suo dire in derive di tipo narcisista; l’uomo, a sua volta, non riesce più ad imporsi come il garante familiare della Legge, scivolando in un tipo di relazioni deresponsabilizzanti, che non riescono più ad imprimere nel figlio un significato, le motivazioni di un vissuto. 
Senza dubbio, oggi facciamo più fatica a definire ruoli che un tempo, ma questa difficoltà non è tutta negativa. Più che avere dei riferimenti forti sui quali appoggiarci per tutta la vita, siamo stimolati cercare continuamente nel vissuto quotidiano il modo evangelico per incontrare l’altro, per tessere relazioni che aprano cammini di libertà. 
Come possiamo essere sicuri della bontà evangelica delle nostre relazioni? Come possiamo percepire la bontà della nostra maternità e della nostra paternità? Il Vangelo di oggi ci suggerisce un criterio: «E ho altre pecore che non provengono da questo recinto, anche quelle io devo guidare»
La paternità e la maternità che noi esercitiamo è autentica quando non si chiude in se stessa, ma si apre al mondo, a tutti coloro che Dio mette sul nostro cammino, quando cioè pensa a chi è fuori. Alzare lo sguardo, guardare al di fuori del recinto delle nostre vite, e pensare all’altro, a colui che non crede, a colui che è nel bisogno e che non è nel giro degli amici e dei parenti, non è qualcosa di normale, ma è il segno di una conversione, il segno che la Parola del Pastore è entrata in noi e sta squarciando il nostro cuore, il segno di un avvenuto riconoscimento reciproco. 
Quando il povero, l’affamato, chi ha perso casa o lavoro, chi è smarrito, chi è solo come un cane, chi è vittima di pregiudizi entra nel nostro pensiero e vi trova spazio, allora, caro mio, qualcosa di grande è avvenuto. Vengono in mente le parole di Papa Francesco dell’Evangeli Gaudium, quando esortava le comunità ad uscire da una pastorale di conservazione, per uno stile pastorale in uscita. Sentire la responsabilità di chi non è in mezzo a noi, di pensare a loro, di coinvolgere chi ci è vicino per uscire, significa essere padri e madri sullo stile del buon Pastore. Alzare lo sguardo per guardare al di là del recinto, del cancello: è il contrario che alzare dei muri per non vedere, per mantenere le distanze, per non sentire le grida dei disperati, la puzza dei poveri, la realtà dei rifiuti umani, come li chiamava Bauman. 
Mi viene da dire che, proprio in questo contesto culturale in cui sembra non esserci più nulla di definitivo su cui appoggiarci e avere la scusa per demandare a qualcuno più in alto le nostre responsabilità, siamo interpellati in prima persona da coloro che sono al di là del recinto delle nostre case, delle nostre chiese, dei nostri gruppi. 
(Paolo Cugini, Adista Notizie n° 11 del 24/03/2018, 16/03/2018) 

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