sabato, Aprile 20, 2024

La collegialità dei vescovi nel cap.III della Lumen Gentium (Parte3) #68Celebration

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).
 Questo breve intervento (diviso in tre sezioni) vuole spingere a riflettere sulle prospettive aperte dalla stagione conciliare, leggendovi ancora oggi linee guida sempre valide per continuare quel grande progetto di “aggiornamento” iniziato con il Vaticano II.

don Paolo Zambaldi 

Uno dei punti che più hanno sollevato, e sollevano ancora, dubbi e perplessità, per non dire scontri veri e propri, è il tema della collegialità dei vescovi e del loro rapporto con il Romano Pontefice. Osservando da vicino il processo e le discussioni, che hanno portato alla stesura definitiva del cap.III, è facile notare come il tema collegialità sia stato il più dibattuto e polarizzante per l’assemblea conciliare. In merito basti pensare ai dibattiti in aula sulle tre successive proposte di schema, le animadversiones scripto exhibitae[i]e le proposte alternative che circolavano tra i Padri[ii]. Da questo dialogo assembleare emerse forte un desiderio di cambiamento sul tema della collegialità, un maggiore approfondimento teologico sulla dottrina circa l’episcopato[iii], recuperando un significato più autentico circa l’essere vescovo, l’appartenenza al collegio[iv]episcopale e la collegialità nel governo della Chiesa[v].

Nonostante questo importante ed arricchente dibattito la trattazione della materia all’interno del testo finale non si può dire completamente esaustiva e risulta inoltre complicata ulteriormente dalla Nota explicativa praevia. Sull’argomento si possono evidenziare tre punti nodali.

Innanzitutto da una scrupolosa lettura del testo del cap.III si comprende che, circa gli elementi che conferiscono ad un vescovo piena appartenenza al collegio episcopale, la comunione gerarchica, è requisito subordinato alla consacrazione. Ciò è in perfetta continuità con lo spirito generale che ha ispirato il testo, ovvero con il primato dell’ordine sacramentale. Questo primato si traduce, nella realtà, nel fatto che i tria munera episcopali discendono dalla consacrazione, mentre solo per il loro valido esercizio si richiede la comunione gerarchica con Roma. Quindi a livello ideale risulta lampante come il secondo, ovvero la comunione gerarchica, sia da considerarsi subordinato al primo, ovvero la consacrazione. Certo è legittimo domandarsi se in realtà si tenga conto di questa precedenza dell’ordine sacramentale o non sia piuttosto il contrario.

Questa riflessione ci porta verso il secondo punto da affrontare, ovvero la portata negativa della Nota, in particolare per uno sviluppo, costante ed armonico, di un dialogo ecumenico sincero. In particolare la Nota rischia di alterare i rapporti, non ufficiali ma tremendamente reali, tra alcuni testi del Vaticano II.[vi]

Un terzo elemento problematico è rappresentato dalle indicazioni ermeneutiche contenute nei punti che vanno dal III e comprendono l’inizio del IV della Nota. Infatti se le stesse modalità di introduzione del testo in questione avevano destato non poche perplessità, ancora maggiori risultano essere le riserve sui contenuti e su come vennero esposti.[vii]

Appare subito evidente come questo testo pesi fortemente sull’ermeneutica ufficiale del cap.III della Lumen Gentium ed esprima contenuti, nonché modi di esprimerli, rigettati dalla maggioranza conciliare e dalla Commissione Teologica e ripresentati, con insistenza quasi intimidatoria, a Paolo VI verso la fine dei lavori da parte di elementi della minoranza.[viii]

Questa parte di testo afferma infatti che il Pontefice, nella sua cura/governo del gregge a lui affidato, ha piena discrezionalità nello scegliere il mezzo di decisione ed intervento: personale o collegiale. Inoltre nel punto IV della Nota viene affermato apertamente come sia affidata alla mera discrezionalità del Papa di convocare o meno il collegio. Infine, oltre ad una sua discrezionalità incondizionata nella convocazione del collegio, si rincara la dose affermando il carattere non permanente del collegio. Anche tralasciando i contenuti, si avverte subito leggendo questo testo che esso non è in armonia con i toni del cap.III e come sia stato compilato sotto l’influenza del gruppo curiale che guidava la minoranza.[ix]

Il quarto punto dottrinale riguarda l’episcopato in se, ovvero la necessità di riflettere su quale figura di vescovo sia emersa dal Vaticano II. In effetti nel post-concilio si è assistito ad un progressiva ed eccessiva lievitazione della funzione vescovile: ogni incarico ecclesiale viene in qualche modo legato alla carica vescovile, quasi che senza questo collegamento il primo non abbia valore o rilevanza. Ciò ha portato ad un aumento eccessivo dei vescovi titolari in tutto il globo. Questi dati di fatto portano con se due ordini di conseguenze. Come primo assistiamo ad un indebolimento della funzione sempre più ridotta a semplice titolo. In secondo luogo la progressiva distanza che si è venuta a creare tra “la base”, ovvero la Chiesa reale e radicata sul territorio e un collegio dove una moltitudine di vescovi non rappresenta alcuna chiesa particolare.

Un’ ultima riflessione è volta ad analizzare il punto che riguarda l’attuazione della dottrina sulla collegialità elaborata dal Concilio Vaticano II. Infatti, forse per via della Nota, per il carattere fortemente compromissorio dei testi, per le forti spinte interne alla Chiesa che rifiutavano, e continuano a rifiutare, i mutamenti sanciti dal concilio, si può affermare che l’ecclesiologia conciliare fatica ancora a tradursi in istituzioni reali. Se osserviamo la ricaduta concreta del Vaticano II, almeno in materia di collegialità, ci si accorge che poco è cambiato rispetto a prima del concilio. In particolare ciò che è rimasto immutato è un sostanziale scollamento tra il pontefice e gli altri membri del collegio.[x]

Quando parliamo di sinodo dei vescovi, ovvero della principale realizzazione concreta della collegialità, parliamo di un’ esperienza fatta di luci ed ombre. Le luci sono soprattutto a livello di esperienza concreta vissuta dai singoli vescovi, una forte spinta emozionale verso una maggiore coesione. Le ombre si concentrano a livello istituzionale dove il sinodo dei vescovi rimane principalmente un organo consultivo, ben lontano da avere forza decisionale ed autonomia. Stendendo infatti un bilancio a grandi linee sui sinodi dei primi quindici anni del periodo post-conciliare possiamo trarre due conclusioni generali.

In primo luogo il sinodo dei vescovi, fin dall’ esordio nel 1967, è stato poco incisivo e di portata modesta, anche a causa di una dottrina sinodale con grandi carenze.

In secondo luogo i quattro sinodi successivi[xi] hanno avuto rilevanza molto differente tra loro.[xii]Osservando più da vicino queste esperienze possiamo farci un’idea di come la dottrina del Vaticano II sulla collegialità abbia saputo trovare realizzazioni concrete. Per svolgere questa analisi bisogna distinguere diversi piani d’indagine. Innanzitutto in riferimento alla dottrina, i sinodi non hanno portato a progressi significativi. A livello di procedure essi furono quasi disastrosi, anche per la mancanza di un regolamento articolato, e per una serie di intoppi, più o meno casuali, che ne ridussero notevolmente la portata.[xiii] Per quanto riguarda invece il punto di vista delle chiese locali queste esperienze furono molto positive perchè permisero il confronto, lo sviluppo di una solidarietà e un tentativo di collegialità effettiva tra i vescovi. Se si analizza infine il piano delle istituzioni ecclesiali è difficile ignorare come sia possibile armonizzare un’ assemblea con le sue necessità di dialettica e di pluralità con un potere monocratico e personale come quello del Papa.

La riforma della curia romana voluta fortemente da Paolo VI ha avuto certamente effetti positivi, ma con il progressivo sviluppo delle congregazioni in senso burocratico, ha perso ogni autonomia nei confronti del Papa.

Le stesse conferenze episcopali, che hanno assunto nel corso dei decenni via via più competenze, restano istituzioni molto fragili di esercizio della potestà collegiale. In particolare questa debolezza emerge nei loro rapporti con la potestà suprema del pontefice e che quasi sempre si riducono a una totale resa alla volontà di Roma.

Quanto detto fa emergere quindi un problema non risolto dal Vaticano II con la Lumen Gentium, ovvero come far coesistere in modo armonico il primato con le sue prerogative e il collegio dei vescovi con i suoi diritti. Infatti senza istituzioni reali che garantiscano l’esercizio concreto della collegialità, essa rimane qualcosa di molto astratto, vera e necessaria, ma solo in via di principio. È ciò di cui parla Alberigo[xiv]quando distingue tra “collegialità affettiva e collegialità effettiva”[xv], ovvero la paura di un proliferare incontrollato di atti collegiali che metterebbe in discussione il primato come autorità sulla Chiesa universale.

In conclusione per quanto riguarda l’ermeneutica e la recezione del cap.III della Lumen Gentium, molte questioni “scottanti” restano ancora insolute. La Chiesa odierna risente ancora pesantemente della mancanza, a livello dottrinale e istituzionale, di un equilibrio tra l’esercizio del primato ed una partecipazione reale ed incisiva dei vescovi al governo della Chiesa. Questa considerazione apre ad una vastità di scenari per il futuro, a prospettive difficili da prevedere per una Chiesa cattolica che negli ultimi cinquant’anni è molto cambiata. Ciò che auspico è che il Concilio Vaticano II venga sempre più spesso ripreso, approfondito e scoperto per renderlo sempre più vivo e reale per tutto il Popolo di Dio e per l’umanità intera. Vorrei dunque concludere questa riflessione con le parole di Paolo VI in occasione della chiusura dei lavori conciliari:

“(…) il Concilio Ecumenico Vaticano II è senza dubbio da enumerare tra i massimi eventi della Chiesa (…) perché, tenendo conto dei bisogni causati da quest’epoca, si è occupato soprattutto delle necessità pastorali e, alimentando la fiamma della carità, ha fortemente cercato di raggiungere con animo fraterno i cristiani ancora separati dalla comunione con la Sede Apostolica, anzi tutta la famiglia umana.”.[xvi]



[i] Tra gli interventi presentati per iscritto di particolare interesse, per comprendere la portata teologico/dogmatica del discorso, risultano essere quelli dei teologi Schillebeeckx e Rahner. Cfr. Alberigo G., Storia del Concilio Vaticano II, Vol II, pag. 332-345.

[ii] Tra le proposte alternative di schema è importante ricordare lo “schema Philips” o “schema belga”, lo schema proposto dalle Conferenze episcopali di Austria e Germania e infine lo “schema Parente” come espressione della minoranza curiale. Cfr. Alberigo G., Storia del Concilio Vaticano II, Vol II, pag. 309-332; Betti U., La dottrina sull’episcopato del Concilio Vaticano II. Il capitolo III della Costituzione dommatica Lumen gentium, Roma, Spicilegium Pontificii Athenaei Antoniani, 1984, pag. 76-79; Lanzetta S. M., Il Concilio Vaticano II, un concilio pastorale. Ermeneutica delle dottrine conciliari, Siena, Editrice Cantagalli, 2014, pag. 290.

[iii] Come evidenziato, tra gli altri, da Feltin (AS I/4, 406).

[iv] Lo stesso termine collegio creò non poche controversie. Infatti la maggioranza dei Padri sottolinearono ancora come la stessa potestà di legare e di sciogliere venisse conferita sia a Pietro sia al collegio apostolico. L’espressione ad instar instituit cuiusdam collegii, tanto avversata dalla minoranza curiale, suscitò reazioni differenti tra gli altri Padri. C’era chi approvava questa formulazione, chi la riteneva troppo debole, chi propendeva per una sua sostituzione con la più chiara e diretta in collegium instituit. A riguardo si notino gli interventi di Enrique y Tarancòn (AS II/2, 734s), Schneider (AS II/2, 509) e i Vescovi di Parigi (AS II/1, 310s), Maximos IV (AS II/, 246) e Heiligers (AS II/2, 780).

[v] In merito si notino gli interventi di Feltin (AS I/4, 406) e De Provenchères (AS I/4, 468-469) con riferimento specifico a  Mt 16,18; 18,18. Cfr. Betti U., La dottrina sull’episcopato del Concilio Vaticano II. Il capitolo III della Costituzione dommatica Lumen gentium, Roma, Spicilegium Pontificii Athenaei Antoniani, 1984, pag. 128.

[vi] In questo caso particolare si rischia di subordinare di fatto l’interpretazione del De Oecumenismo, non tanto al III cap. della Lumen Gentium, ma alla Nota.

[vii] “3. (…). Il sommo Pontefice, cui è affidata la cura di tutto il gregge di Cristo, giudica e determina, secondo le necessità della Chiesa che variano nel corso dei secoli, il modo col quale questa cura deve essere attuata, sia in modo personale, sia in modo collegiale. Il romano Pontefice nell’ordinare, promuovere, approvare l’esercizio collegiale, procede secondo la propria discrezione, avendo di mira il bene della Chiesa.
4. Il sommo Pontefice, quale pastore supremo della Chiesa, può esercitare la propria potestà in ogni tempo a sua discrezione, come è richiesto dallo stesso suo ufficio. (…).”. Cfr. Nota explicativa praevia (EV 1/449-451).

[viii] Cfr. Adornato G., Paolo VI. Il coraggio della modernità, Milano, San Paolo, 2008, pag. 116.

[ix] Riemerge infatti forte quel giuridismo fortemente criticato dai Padri fin dalla discussione del primo schema De Ecclesia. In particolare Montini fece emergere il problema degli eccessivi riferimenti al Diritto Canonico, e l’uso di un linguaggio troppo giuridico, già nel corso della 34macongregazione generale (AS I/1, 149), con lui anche Blanchett (AS I/1, 148), Jacquier (AS II/2, 619-620), e le conferenze episcopali di Austria e Germania (AS I/4, 601-639).

[x] Cfr. Mansi, 52,1109-1010.

[xi] Quelli del 1969, 1971, 1974 e 1977 Cfr. Grootaers J., I sinodi dei vescovi del 1969 e del 1974: funzionamento insoddisfacente e risultati significativi, in L’ecclesiologia del Vaticano II: dinamismi e prospettive, Bologna, Dehoniane, 1981.

[xii] Particolarmente significativi per la Chiesa post-conciliare furono, l’assemblea straordinaria del 1969, che evidenziò la necessità di una maggiore applicazione della collegialità per il bene della Chiesa e l’assemblea generale del 1974 centrata sul tema dell’evangelizzazione e delle sue prospettive che vide, al di là dei risultati finali, un apporto decisivo delle chiese più “giovani”.

[xiii] Cfr. Grootaers J., I sinodi dei vescovi del 1969 e del 1974: funzionamento insoddisfacente e risultati significativi, in L’ecclesiologia del Vaticano II: dinamismi e prospettive, Bologna, Dehoniane, 1981, pag. 287-289.

[xiv] Cfr. Wassilowsky G., Alberigo Giuseppe in Quisinsky M., Walter P., Personenlexikon zum Zweiten Vatikanischen Konzil, Freiburg, Herder, 2012, pag. 34-35.

[xv] Cfr. Alberigo G., L’ecclesiologia del Vaticano II: dinamismi e prospettive, Bologna, Dehoniane, 1981, pag. 249.

[xvi] Paolo VI, Lettera apostolica In Spiritu Sancto, 8 dicembre 1965 (EV 1,532).

Supporta Don Paolo Zambaldi con una donazione con PayPal.

Ultimi post

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Dalla stessa categoria