venerdì, Aprile 19, 2024

Le donne africane possono cambiare il continente

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Il 21 marzo 2018, 44 leader africani hanno fatto la storia a Kigali, in Ruanda, firmando l’Accordo africano per la zona continentale di libero scambio (Afcfta). Se tutti i paesi dell’Unione africana (Ua) firmeranno e ratificheranno l’accordo, nascerà una delle più grandi zone di libero scambio del mondo, un mercato unico per merci e servizi per una popolazione che supera 1,2 miliardi di persone. 

L’accordo è in linea con i più ampi obiettivi dell’iniziativa di riforma dell’Ua, che intende superare l’attuale coesistenza di una serie di blocchi economici spesso in competizione tra loro e giungere a una singola unità panafricana che possa facilitare il libero movimento di merci e servizi in tutto il continente. L’Afcfta è un risultato fondamentale che potrebbe modificare la traiettoria economica del continente. 

La foto celebrativa con i vari leader riuniti a Kigali è stata condivisa rapidamente da varie piattaforme di social network per commemorare l’eccezionalità dell’evento. Tuttavia, agli occhi dei più attenti non sarà sfuggito un particolare: nella foto non c’erano donne. 

Una lezione comune
Il processo di riforme dell’Ua può creare uno spazio per le donne ai livelli più alti della politica del continente? Il round finale dei negoziati per l’Afcfta ha purtroppo coinciso con le dimissioni di Ameenah Gurib-Fakim, la prima donna presidente di Mauritius. Adesso non ci sono donne capi di stato nel continente. Oltre a Gurib-Fakim abbiamo avuto Ellen Johnson-Sirleaf in Liberia, Joyce Banda in Malawi e Catherine Samba-Panza nella Repubblica Centrafricana. Delle quattro, solo Johnson-Sirleaf ha portato a termine un mandato completo, mentre Gurib-Fakim e Banda hanno lasciato l’incarico a seguito di esili accuse di frode e Samba-Panza ha scelto di non candidarsi dopo aver prestato servizio come presidente ad interim. 

Tutte queste esperienze hanno una lezione comune da insegnare, e cioè che spesso ci si aspetta che le leader politiche africane rispettino standard molto più alti rispetto alle loro controparti maschili e che è necessario fare molto di più per avere le donne nell’amministrazione politica del continente. 
In Africa, la questione dell’uguaglianza delle donne in politica è complessa. Prima delle indipendenze abbiamo avuto degli esempi di donne arrivate ai vertici delle loro società, soprattutto in fasi politiche particolarmente tese. Tra queste figure leggendarie si annovera la regina Nzinga, dei regni Ndongo e Matamba, che ha guidato il popolo mbundu dell’Angola nella resistenza contro i portoghesi. Secondo la leggenda, poi, i somali non sarebbero mai riusciti a sopravvivere alle terribili carestie di Buraan senza la saggezza di Areewelo

Ci sono anche eroine più recenti. Le donne aba hanno guidato la prima protesta organizzata contro la colonizzazione britannica in Nigeria, mentre Mekatilili wa Mwenza dei mijikenda e la regina Lozikeyi degli ndebele hanno guidato simili movimenti di resistenza rispettivamente negli attuali Kenya e Zimbabwe. Insieme a quelle delle anonime soldate che hanno combattuto in Algeria, Kenya, Angola, Mozambico e in altri paesi, queste storie affermano che le donne hanno sempre fatto parte della politica africana. 

E tuttavia, nell’Africa postcoloniale si è affermata un’idea patriarcale dei ruoli – introdotta dal patriarcato europeo e scambiata per una presunta tradizione africana – che di fatto ha cancellato la storia delle donne che sono state leader politiche. 

L’esempio di Winnie Madikizela-Mandela
Questi temi emergono ancora più chiaramente sullo sfondo del lutto recente per la scomparsa di Winnie Madikizela-Mandela, una leader della resistenza antiapartheid in Sudafrica. Madikizela-Mandela è stata punita per aver fatto esattamente ciò che le sue controparti maschili hanno continuato a fare per anni. Come negli altri movimenti politici e di liberazione, ha messo a repentaglio la sua sicurezza e la sua vita privata per affrontare l’ingiustizia del regime razzista. È stata torturata, mandata in esilio e umiliata dal regime dell’apartheid. E sebbene abbia sicuramente preso parte alle violenze contro un governo violento, non dimentichiamo chi era il suo nemico: il sistema politico più razzista e brutale del continente. 

Per i suoi enormi sacrifici, Madikizela-Mandela è stata marchiata come assassina e le è stato negato un posto ai vertici del potere nel Sudafrica postapartheid. Oggi il Sudafrica è secondo la Banca mondiale il paese più disuguale del mondo, un paese dove la radicatissima povertà è collegata direttamente alla “persistente eredità dell’apartheid”

L’esperienza di Madikizele-Mandela riecheggia quella delle donne del continente che sono la maggioranza della popolazione ma sono sistematicamente escluse dai livelli più alti della politica. Le donne sono state al centro dei movimenti di liberazione in tutto il continente, non solo in ruoli di supporto ma in posizioni di leadership all’interno di organizzazioni politiche e militari. Fanon, Cabral, Sankara e Lumumba avevano dichiarato tutti quanti in modo piuttosto categorico che la liberazione dell’Algeria, della Guinea Bissau, del Burkina Faso, della Repubblica Democratica del Congo e del continente nel suo complesso sarebbe stata incompleta senza la liberazione delle donne.

Una situazione sfaccettata
Tuttavia, nell’Africa postcoloniale vaghi richiami a una tradizione patriarcale africana inventata congiurano per escludere le donne dalla politica. Le donne africane che avevano creduto che la partecipazione ai movimenti di liberazione avrebbe condotto alla loro liberazione sono rimaste deluse perché il patriarcato coloniale è stato sostituito dal patriarcato postcoloniale. 

Oggi la situazione che devono affrontare le donne africane impegnate in politica ha diverse sfaccettature. Tra il 2005 e il 2015 la proporzione delle donne africane negli organismi legislativi del Nordafrica è più che raddoppiata, passando dal 7 al 18 per cento, mentre nell’Africa subsahariana è salita dal 15 al 22 per cento. Al livello globale, il Ruanda ha il più alto numero di donne in parlamento (hanno il 63,8 per cento dei seggi) e, grazie al ricorso sempre più diffuso al sistema delle quote, nella maggior parte dei paesi dell’Africa orientale e meridionale le donne rappresentano più del 30 per cento dei parlamentari. Inoltre, come abbiamo già detto, quattro paesi hanno eletto delle donne alla carica più alta, più di Europa e America settentrionale insieme. 

Ci sono però state anche delle sconfitte eclatanti, soprattutto nei paesi dove le donne si sono candidate alla presidenza. In Sudafrica Dlamini-Zuma ha lottato per ottenere la presidenza sudafricana ma, nonostante i suoi traguardi individuali, non è riuscita a scrollarsi di dosso l’immagine di protégé del suo ex marito in un momento in cui molti elettori volevano un cambiamento. Al di là di Sudafrica e Malawi, nessuna donna si è candidata alla presidenza nell’Africa meridionale. 

In Nigeria, il paese più popoloso del continente, Remi Sonaiya è stata la prima donna a candidarsi alla presidenza e, nonostante una campagna degna di nota, non è riuscita a infrangere il tacito “accordo tra gentiluomini” sulla provenienza religiosa ed etnica che delinea la praticabilità politica nel paese. In Kenya, Uganda e Somalia le donne che hanno sfidato uomini alla presidenza hanno dovuto affrontare violenze e calunnie. In Ruanda, Diane Rwigara e Victoire Ingabire, due donne che hanno sfidato Kagame alla presidenza, adesso si trovano in carcere.

Un’opportunità di riforma
Tenendo conto della posizione dell’Ua secondo cui i diritti delle donne rientrano in un più ampio discorso sui diritti umani, l’attuale processo di riforme dell’Ua non prevede in modo esplicito una maggiore inclusione delle donne nell’organizzazione. Al momento l’impalcatura dell’Ua sulle questioni di genere è influenzata da standard globali. 

L’Ua ritiene inoltre i diritti delle donne parte integrante dei suoi meccanismi per il rispetto dei diritti umani, tra cui la Carta africana per i diritti umani e dei popoli. L’ex presidente dell’Ua Dlamini-Zuma, la prima donna ad aver occupato questa posizione, ha messo la partecipazione delle donne al centro del suo mandato e ha insistito per aumentare il numero delle donne designate a incarichi amministrativi. 

Il processo di riforma può essere un’opportunità per coinvolgere un numero maggiore di donne nella leadership politica in Africa. Il punto di partenza deve essere la lunga tradizione femminista africana che riconosce il lavoro già svolto. Una volta un’amica mi ha detto qualcosa che ha alterato in profondità la mia prospettiva sul femminismo: “Le donne africane non sono mai state delle madri che se ne stanno a casa”. La sfida della rappresentanza politica delle donne in Africa è qualitativamente diversa da quella che coinvolge le donne in occidente. Le storie di Nzinga, Areweelo, Mekatilili, Lozikeyi e Madikizela-Mandela ci ricordano che l’impegno delle donne è sempre stato parte integrante della politica del continente, ma che ci troviamo di fronte a un processo di sistematica cancellazione. 

Se si vuole cercare un esempio del lavoro che le donne del continente stanno già svolgendo per far raggiungere gli obiettivi del processo di riforma basta guardare alle migliaia di donne commercianti che ogni giorno vanno da Goma (nella Repubblica Democratica del Congo) verso Gisenyi (in Ruanda) per svolgere le loro attività commerciali; sono la prova vivente di ciò che potrebbe essere il libero scambio e la libertà di movimento di merci e servizi. Si studino i sistemi chama (una forma di microcredito) del Kenya per valutare quella che potrebbe essere la sostenibilità finanziaria al livello continentale. Si riconoscano i gruppi di donne che nelle chiese e nelle moschee di tutto il continente dimostrano i risultati che può raggiungere una leadership inclusiva e interetnica. 

Le donne africane sono presenti, fanno politica e sono pronte a mettersi al lavoro. È ora che la classe dirigente se ne renda conto.

(Nanjala Nyabola, giornalista, l’Internazionale, 4 maggio 2018)

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