giovedì, Aprile 25, 2024

“Rifondare” il Sinodo senza farlo: il capolavoro della “Episcopalis Communio”

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

39502 CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Come al solito, quando si tratta di papa Francesco, gli aggettivi ed i sostantivi sono sempre iperbolici; e la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad incredibili novità e straordinari mutamenti.

Stavolta a parlare di «vera e propria rifondazione dell’organismo sinodale» è il card. Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei vescovi. Baldisseri ha definito in questi termini (e dopo di lui la quasi totalità dei media) la nuova Costituzione apostolica, Episcopalis communio, con cui papa Francesco interviene sulle modalità di lavoro del Sinodo dei vescovi, sinora normato dalla lettera apostolica sotto forma Motu Proprio di papa Paolo VI Apostolica sollicitudo, del 1965, oltre che dai cann. 342–348 del Codice di Diritto Canonico.
Dal 3 al 28 ottobre 2018, in Vaticano si svolgerà un Sinodo, il terzo da quando Francesco è papa. Si tratta della XV Assemblea Generale Ordinaria, stavolta imperniata sul tema dei giovani. In previsione di ciò, e per dare all’opinione pubblica la percezione di un organismo che stavolta davvero cambia e si adatta ai tempi, il papa ha emanato l’Episcopalis communio (firmata il 15 e resa pubblica martedì 18 settembre 2018). E in effetti, a leggere i giornali, laici e cattolici, il nuovo documento è stato – come di consueto – accolto in modo entusiastico.
Il Sinodo dei Vescovi fu uno dei frutti del Concilio, che voleva affiancare all’autorità del papa quella di una assemblea che rappresentasse tutte le Chiese particolari e le tante sensibilità che provenivano dalle diocesi cattoliche sparse nei 5 Continenti. Nei decenni post-conciliari, però, l’organismo non si è mai riunito con la frequenza (e l’autonomia) auspicata da coloro che prefiguravano una maggiore collegialità nella Chiesa (per indicazione statutaria, le assemblee ordinarie si svolgono a scadenza fissa, ogni tre anni); inoltre, ai laici ed alle donne è stato concesso uno spazio ed una capacità di intervento meno che residuale; ancora: le conclusioni del Sinodo – raccolte in una serie di propositiones al papa – non di rado sono state ignorate o sconfessate nelle Esortazioni post sinodali che i pontefici hanno promulgato, spesso a mesi e mesi di distanza dalla conclusione delle assisi episcopali.
È vero: papa Francesco in questi anni ha più volte sottolineato l’importanza del Sinodo. Ne ha convocati tre e presieduti già due, in Vaticano, entrambi sullo stesso argomento, la famiglia, senza però che i vescovi giungessero a particolari e significativi risultati. Nonostante ciò, mentre si sta aprendo il terzo Sinodo con Francesco regnante, l’impressione è che nemmeno sotto questo pontificato il Sinodo abbia trovato la sua centralità e la sua capacità di incidere nella vita e nelle scelte della Chiesa.
Tante non “novità”
Tanto più che, ad una lettura non emotiva della Episcopalis communio, grandi novità che diano nuovo slancio e vigore al Sinodo non sembrano esserci. Se nel lungo preambolo del documento sono molti i richiami ai Pastori a restare fedeli alla loro missione di servizio al «Popolo santo di Dio», a mettersi in ascolto del «sensus fidei del popolo di Dio», previa «consultazione quanto più possibile capillare dei fedeli»; se pressanti sono gli inviti a considerare «il contributo degli organismi di partecipazione della Chiesa particolare, specialmente il consiglio presbiterale e il consiglio pastorale, a partire dai quali veramente può incominciare a prendere forma una Chiesa sinodale»; al netto di tutte queste affermazioni, intenzioni lodevoli e che tutti i predecessori di Francesco avrebbero – a parole – sottoscritto, nella sostanza l’istituzione sinodale cambia poco.
Vediamo però nel dettaglio quali sono le (in verità, poche) novità contenute nel documento papale. E quali non lo sono. Dopo la lunga premessa divisa per paragrafi, segue un articolato che contiene le disposizioni per la convocazione e lo svolgimento del Sinodo.
Non sembra essere una novità quanto recita l’art. 6 della Costituzione apostolica, che afferma che i Sinodi sono il risultato di una estesa consultazione dei fedeli nelle diocesi e la Segreteria generale sarà in qualche modo coinvolta e presente anche nella fase attuativa. Era così anche prima. Il Papa ribadisce in ogni caso che, come afferma il Concilio, i vescovi «quando insegnano» in comunione col Pontefice «devono essere da tutti ascoltati» e i fedeli «devono accordarsi col giudizio» del loro vescovo. Ma «è altrettanto vero che la vita della Chiesa e nella Chiesa è per ogni vescovo la condizione per l’esercizio della sua missione d’insegnare». Così, il vescovo «è contemporaneamente maestro e discepolo». È «capo e pastore» (resta in-  teso che il popolo di Dio resta “gregge” da pascolare), ma «è anche discepolo quando, sapendo che lo Spirito è elargito a ogni battezzato, si pone in ascolto della voce di Cristo che parla attraverso l’intero popolo di Dio», che come totalità dei fedeli «non può sbagliarsi nel credere». Il vescovo deve dunque «camminare davanti» al suo gregge indicando la via, «camminare nel mezzo, per rafforzare» il popolo nell’unità, e «camminare dietro perché nessuno rimanga indietro», ma soprattutto «per seguire il fiuto che ha il popolo di Dio per trovare nuove strade». La «voce delle pecore» va ascoltata anche attraverso gli organismi diocesani che hanno il compito di consigliare il vescovo. 
Francesco ribadisce inoltre (par. 7) che il Sinodo continuerà ad avere solo carattere consultivo e non deliberativo. La motivazione è curiosa, e si affida a documenti precedenti (Esortazione post sinodale Pastores grecis e il Discorso al Consiglio della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi del 30 aprile 1983): «il fatto che – scrive il tandem Bergoglio-Wojtyla – “il Sinodo abbia normalmente una funzione solo consultiva non ne diminuisce l’importanza. Nella Chiesa, infatti, il fine di qualsiasi organo collegiale, consultivo o deliberativo che sia, è sempre la ricerca della verità o del bene della Chiesa. Quando poi si tratta della verifica della medesima fede, il consensus Ecclesiae non è dato dal computo dei voti, ma è frutto dell’azione dello Spirito, anima dell’unica Chiesa di Cristo”»
Pertanto il voto dei Padri sinodali, «se moralmente unanime, ha un peso qualitativo ecclesiale che supera l’aspetto semplicemente formale del voto consultivo»; inoltre, il papa (sempre al par. 7) ribadisce quanto già avvenuto in passato e cioè che «la recezione delle conclusioni sinodali», sono «accolte dal Romano Pontefice nella modalità che egli avrà giudicato più conveniente».
In perfetto “Francesco style”, insomma, nessuna reale discontinuità rispetto al passato e qualche affermazioni di buon senso. Tanto più che il Sinodo continua ad essere composto da vescovi (evidentemente solo maschi), tenendo fuori dal potere decisionale laici e donne. Il papa lo sa, e chiosa: «benché nella sua composizione si configuri come un organismo essenzialmente episcopale», non vive «separato dal resto dei fedeli» ma «al contrario, è uno strumento adatto a dare voce all’intero popolo di Dio».
Si parla solo se interrogati. E non si vota
Una novità, ma piccola, riguarda, proprio in questo senso, i membri che partecipano al Sinodo. Sono quelli già previsti dal can. 346 del Codice di Diritto Canonico, ossia vescovi che vengono eletti o designati dalle Conferenze Episcopali, altri sono nominati direttamente dal papa; ad essi si aggiungono alcuni membri di istituti religiosi clericali. Poi, però, l’Episcopalis communio aggiunge (art. 2 comma 2) che «secondo il tema e le circostanze, possono essere chiamati all’Assemblea del Sinodo anche alcuni altri, che non siano insigniti del munus episcopale, il ruolo dei quali viene determinato di volta in volta dal Romano Pontefice». La formula è ambigua: potrebbero trattarsi di preti non vescovi o anche di religiosi e religiose, di laici e donne? Sembrerebbe, per la verità, più la prima ipotesi. In ogni caso, il documento non fissa nemmeno un limite al numero di questi “altri”. Per tutti questi dubbi bisognerà probabilmente attendere l’istruzione attuativa che seguirà l’Episcopalis communio. Altra piccola novità riguarda la materia del documento sinodale finale. E la sua possibile inclusione nel magistero del papa. La prassi invalsa sinora è stata che un’assemblea sinodale terminasse con l’approvazione e la consegna al Papa di una serie di propositiones, che il Pontefice prendeva (o meno) in considerazione per pubblicare una Esortazione apostolica post-sinodale. A partire dall’assemblea sulla famiglia del 2014 convocata dal Papa, il Sinodo ha già iniziato a elaborare anche un documento conclusivo. Ora Francesco, nella Costituzione apostolica, all’articolo 18, rende stabile questa nuova prassi, e stabilisce che «ricevuta l’approvazione dei membri, il Documento finale dell’Assemblea è offerto al Romano Pontefice, che decide della sua pubblicazione. Se approvato espressamente dal Romano Pontefice, il Documento finale partecipa del Magistero ordinario del Successore di Pietro. Qualora poi il Romano Pontefice abbia concesso all’Assemblea del Sinodo potestà deliberativa, a norma del can. 343 del Codice di diritto canonico, il Documento finale partecipa del Magistero ordinario del Successore di Pietro una volta da lui ratificato e promulgato». Insomma, il documento finale potrebbe diventare parte del magistero della Chiesa. Ma a deciderlo sarà sempre il papa. Non viene nemmeno specificato se il Pontefice scriverà comunque una sua esortazione apostolica conclusiva. Come ha spiegato in conferenza stampa il sottosegretario del Sinodo, mons. Fabio Fabene, la Costituzione apostolica riguarda il Sinodo, mentre la decisione se fare una esortazione apostolica spetta esclusivamente al Papa.

Che invece, come sostiene il card. Baldisseri, siamo di fronte ad una “Conversione del papato” in chiave ecumenica sembra piuttosto improbabile. L’art. 12 dell’Episcopalis communio afferma che all’Assemblea del Sinodo possono essere invitati, «senza diritto di voto» esperti e uditori (e fin qui nulla di nuovo); ma anche “Delegati Fraterni”, «che rappresentano le Chiese e le Comunità ecclesiali non ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica»; infine «in determinate circostanze possono essere designati, senza diritto di voto, alcuni Invitati Speciali, cui si riconosce una particolare autorevolezza in riferimento al tema dell’Assemblea del Sinodo ». C’è da considerare che “delegati fraterni” rappresentanti delle Chiese cristiane erano già stati invitati ai Sinodi precedenti. Certo, da ora in poi essi potranno (art. 15) «essere invitati a prendere la parola sul tema dell’Assemblea del Sinodo». Ossia, pare di capire, non potranno parlare se non esplicitamente invitati a farlo. E comunque continueranno a non poter votare.

(Valerio Gigante, Adista Notizie n° 33 del 29/09/2018)

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