giovedì, Aprile 18, 2024

Lectio Biblica: Esodo (incontro del 16 ottobre 2018)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Crescita e schiavitù in Egitto (Es 1-2)

Testi liberamente tratti da:

Fretheim T.E., Esodo, Torino, Claudiana, 2004;

Rashi di Troyes, Commento all’Esodo, Genova, Marietti, 2015

De Luca E, Esodo/Nomi. Traduzione a cura di Erri De Luca, Milano, Feltrinelli, 2009

  • Il paese era pieno di ebrei (Es 1, 1-7)

  • A chi servirà Israele (Es 1, 8-14)

  • Le figlie salvano i figli (Es 1, 15-22)

  • Le figlie salvano Mosè (Es 2, 1-10)

  • Mosè incarnazione del futuro (Es 2, 11-22)

  • Quando muoiono i re (Es 2, 23-25)

1) Il paese era pieno di ebrei (Es 1, 1-7)  

Il passo iniziale di un libro è importante. Esodo 1,1-7 non fa eccezione.

Erri De Luca da una sua precisazione dovuta ad uno studio approfondito e meditato della Scrittura. Egli traduce “E questi i nomi dei figli di Israele (…)”. Molti libri della Bibbia, molte frasi di questi libri cominciano con la congiunzione “e”, in ebraico “vav”, lettera che aderisce alla parola. Come ogni grande opera dell’antichità la Bibbia è stata a lungo tramandata oralmente. Forse un resto di questa trasmissione è attaccare frasi tramite una congiunzione, aggancio con il narrato precedente (non a caso in ebraico la lettera “vav”  e anche una parola a sé stante  e significa “gancio”).

Molto velocemente il narratore sposta l’attenzione dalla storia della Genesi a un nuovo mondo, dai dodici figli e le settanta persone, a un intero paese. Il punto focale è costituito dalla continuità con i temi della creazione e della promessa presenti nella narrazione della Genesi e anticipa il trascorrere di un lungo periodo di tempo.

Una chiave di lettura per questa sezione è la ripetizione dell’espressione “figli di Israele” che ritroviamo all’inizio e alla fine.

Nel v. 1 infatti si sottolinea la continuità con Genesi 48,8-27, che elenca i nomi di quanti scesero in Egitto (75 persone).  Il versetto 1 collega le due narrazioni.

“Questi sono i nomi dei figli di Israele entrati in Egitto con Giacobbe e arrivati ognuno con la sua famiglia…”

In ebraico il libro dell’Esodo si intitola “Shemot” (che significa “nomi”), poiché assume come titolo le parole con le quali inizia il racconto. Ricordiamo come la Genesi in ebraico Bereshit (lettera B) riceva il suo nome dalla prima lettera del primo versetto (In principio…).

Rashi in merito scrive: “Sebbene li abbia citati per nome quando erano vivi” (Gen 46, 8-27), li ricorda ancora quando riferisce della loro morte per dimostrare quanto erano cari (a Dio) in quanto che essi vennero paragonati alle stelle che (il Signore) fa uscire ed entrare contandole e citandole per nome, come è scritto “Levate in alto i vostri occhi e guardate: chi ha creato tali cose? Egli fa uscire in numero preciso il loro esercito e le chiama tutte per nome; per la sua onnipotenza e il vigore della sua forza non ne manca alcuna.” (Is 40, 26).

Il versetto 5 tradotto letteralmente suonerebbe: “E fu ogni persona uscita di coscia di Giacobbe (…)”. Usciti di coscia vuol dire: nati. E’ usata nella Bibbia in questo versetto e in Gen 46, 26 riferendosi a Giacobbe, e poi la troveremo solo per Gedeone nelle narrazioni del Libro Giudici (Gd 8,30). Anche a Gedeone, non a caso, sono attribuiti 70 figli. Giacobbe è colui che esce sciancato, fuori di coscia, dalla lotta presso il fiume Iabbok (Gen 32, 26). In ebraico Iabbok e Giacobbe hanno le stesse lettere, ma nel nome di Giacobbe viene anche una “ain” il cui valore numerico (infatti in ebraico ad ogni lettera dell’alfabeto viene assegnato un numero) è 70, numero dei figli a lui attribuiti. Possiamo dire allora che la coscia di Giacobbe è “sede di belle vicende”, come ci ricorda Erri De Luca.

Questo elenco termina con l’espressione “Tutte le persone discendenti da Giacobbe erano settanta. Giuseppe si trovava già in Egitto” (Es 1, 5), e Rashi invita ancora a riflettere: “Egli e i suoi figli non erano compresi nel numero dei settanta? Allora cosa vuol indicare (il testo) con tale precisazione? Non sappiamo forse noi che egli era giaà in Egitto?

Lo ha fatto per renderci noto il senso di giustizia di Giuseppe. Lo stesso Giuseppe che era stato pastore del gregge di suo padre, proprio lui che era stato condotto in Egitto, era divenuto re, eppure era rimasto coerente al suo retto comportamento.”

(Rashi di Troyes, Commento all’Esodo, Genova, Marietti 2015)

  1. 6 Giuseppe poi morì e così tutti i suoi fratelli e tutta quella generazione… La morte di una generazione indica chiaramente la fine di un periodo e l’inizio di un altro. E’ finito il tempo dei patriarchi e inizia quello del popolo di Israele. In pochi versetti è stata sintetizzata la storia di secoli. Da quando le tribù sono entrate in Egitto fino alla nascita del nuovo re, sono passati molti anni ma non vien detto quanti. In alcuni testi si parla di 400 anni, in altri di tre generazioni, in testi di autori moderni di 800 anni.

v.7I figli di Israele prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto potenti e il paese ne fu ripieno.”… qui si sottolinea la discontinuità con la Genesi in quanto da una famiglia specifica si passa a un popolo intero, da Giacobbe /Israele a Israele. Questa espressione si ritrova soltanto due volte nella Genesi mentre ricorrerà per ben 125 volte nell’Esodo… Questo significa una modifica sostanziale del vocabolario usato. Il lettore viene sollecitato a spostare la sua attenzione su questa nuova realtà: Israele, il popolo di Dio.

In questo versetto poi si sottolinea con una certa enfasi la crescita numerica di questo popolo.

Interessante notare come l’espressione letterale “ed ebbero ansia a causa dei Figli di Israele (…)” contenga un verbo usato solo qui in tutto il libro. Esso ha un solo precedente in Gen 27, 46, là dove Rebecca dice di provare ansia mortale per suo figlio Isacco. La stessa “ansia” egiziana Israele la procurerà, suo malgrado, ai Moabiti della piana di Gerico (Num 22, 3).

Vengono utilizzati cinque verbi significativi: prolificarono, crebbero, divennero numerosi, divennero molto potenti, riempirono il paese. A che cosa serve questo linguaggio?

1) Ad esprimere l’adempimento della promessa fatta a questa famiglia. Anche se Dio qui non viene menzionato esplicitamente, così come non fu intrusivo nella storia di Giuseppe, si comprende il suo “stare dietro le quinte”, il suo agire mediante i doni offerti dalla creazione.

2) a collegare il v. 7 non solo alle promesse storiche ma anche ai racconti della creazione/ricreazione di Gen 1,28 e 9,1-7. Israele è stato prolifico, si è moltiplicato e ora riempie la terra/il paese (il vocabolo ebraico ‘eres può essere tradotto nei due modi; si riferisce sia alla “terra” e sia all’ Egitto).

La questione, qui, è che le intenzioni di Dio nella creazione si realizzano in questa famiglia; quel che sta accadendo è in linea con i suoi disegni creazionali. Si tratta di un compimento microcosmico di un progetto macroscopico di Dio per il mondo. Israele è il punto d’inizio di Dio per la realizzazione del suo progetto a favore di tutti.

Il lungo arco temporale coperto da questi versetti viene quindi riconosciuto non come un tempo nel quale Dio è stato assente, ma come un tempo in cui la su azione benedicente si è rivelata fondamentale.

17Allora il faraone disse a Giuseppe: “Di’ ai tuoi fratelli: “Fate così: caricate le cavalcature, partite e andate nella terra di Canaan. 18Prendete vostro padre e le vostre famiglie e venite da me: io vi darò il meglio del territorio d’Egitto e mangerete i migliori prodotti della terra”. 19Quanto a te, da’ loro questo comando: “Fate così: prendete con voi dalla terra d’Egitto carri per i vostri bambini e le vostre donne, caricate vostro padre e venite. 20Non abbiate rincrescimento per i vostri beni, perché il meglio di tutta la terra d’Egitto sarà vostro””. (Gen 45,17-20).

E’ un’ironia della sorte che questa azione creativa avvenga in Egitto. In una terra che non è la terra promessa e dove per opera di “non eletti”, si realizza la sopravvivenza degli “eletti”.

2) Chi servirà Israele? (1,8-14)

Questa sezione non è solo piena di ironia ma tradisce anche il carattere simbolico della narrazione, a prescindere dalla sua veridicità storica. Il faraone, Giuseppe, gli egiziani, Pitom e Ramses indicano molto più che grandi realtà storiche. Quello che è in gioco viene proiettato su uno schermo cosmico, che va ben al di là sia della sfera terrestre sia di quella celeste. E’ lo scontro tra la volontà creatrice di Dio e lo sforzo di sovvertirne l’operato, tra il dominio e la liberazione, tra la schiavitù e il servizio…E in questo scontro cosmico anche la natura sarà coinvolta.

Chi si opporrà stavolta alla straordinaria forza creatrice di Dio?

Il colpevole stavolta non è un serpente o il fratricida Caino, bensì un nuovo re sopra l’Egitto (v8). “Allora sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe.”

 Il narratore lo introduce in modo incisivo. Non ne viene indicato neanche il nome (così come per il suo successore). Il punto focale è posto su di lui, non soltanto come figura storica, ma anche come simbolo delle forze anticreazionali di morte che affrontano il Dio della vita. L’attenzione del narratore è sulla risposta di questo re alla straordinaria attività creatrice di Dio. Si tratta di un combattimento mortale in cui è in gioco il futuro della creazione.

L’unico elemento sul faraone è che egli non aveva conosciuto Giuseppe. In questo caso” Giuseppe” è più di un semplice riferimento a una persona; si tratta di colui nel quale e mediante il quale Dio ha conservato il popolo in vita.

5Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. 6Perché già da due anni vi è la carestia nella regione e ancora per cinque anni non vi sarà né aratura né mietitura. 7Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione.”

20Se voi avevate tramato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso.”

 (Gen 45,5-7; 50,20).

Questa descrizione contrasta con quella data da Dio, che invece “conosce” questo popolo e la sua condizione. “Conoscere significa più che una conoscenza superficiale o un essere informati; indica un rapporto in profondità in cui è coinvolto l’impegno di coloro che si conoscono e un genuino interesse per il reciproco benessere.”

Il re d’Egitto non conosce; Dio conosce. La diversità del conoscere ha un effetto profondo sull’azione. Il non conoscere porta all’oppressione; il conoscere porta alla salvezza. Chi conosce e chi non conosce (ancora) sarà un tema ricorrente nel libro dell’Esodo. (CONVIVENZA CON CULT E REL)

V9-10 “E disse al suo popolo: Ecco che il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più forte di noi. Prendiamo provvedimenti nei suoi riguardi per impedire che aumenti, altrimenti, in caso di guerra, si unirà ai nostri avversari, combatterà contro di noi e poi partirà dal paese.”

Rashi fa notare una particolarità che va persa nella traduzione: “La parola havàh (“orsù”) reca implicita un’espressione di preparativo o invito a compiere una certa cosa, come quando si dice “Preparatevi a questo!” (…).

I nostri Maestri diedero un’interpretazione omiletica del testo, riferendo l’espressione “nei suoi confronti” non al popolo, bensì a Dio, il salvatore d’Israele. Gli egiziani sentenziarono di uccidere gli ebrei affogandoli in acqua, confidando nel fatto che il Signore aveva giurato di non mandare più un diluvio sulla terra e che, pertanto, Dio non avrebbe potuto, per contrappasso, applicare un’analoga punizione contro gli egiziani. (Essi non sapevano che se Dio non poteva scatenare un diluvio sul mondo intero, avrebbe potuto invece farlo nei confronti di una singola nazione).” Questa ultima affermazione appare nelle edizioni più antiche del commentario di Rashi. (Rashi di Troyes, Commento all’Esodo, Genova, Marietti 2015)

Questi versetti presentano la situazione di Israele dal punto di vista del nuovo re, che si contrappone a quella del narratore nel versetto 7. Quello che il narratore vede come una benedizione (Il moltiplicarsi del popolo), il nuovo re lo considera un problema. Si tratta di un atto pubblico, promulgato nei termini di “noi/voi” in tutto il paese, nel tentativo di dimostrare che è in gioco il loro futuro. Egli è preoccupato di Israele e della sua straordinaria crescita, che potrebbe risultare incontrollabile da parte dell’Egitto, quindi diventare una minaccia allo status quo. Se il loro incremento demografico non viene fermato, essi potrebbero costituire una quinta colonna in caso di guerra e fuggire. Gli israeliti diventano un problema di sicurezza nazionale.

Questo discorso è importante per la comprensione dei fatti successivi perché:

  1. Il re è il primo a riconoscere i figli di Israele come un “popolo”, così conferendo loro uno status uguale a quello del suo stesso popolo.

  2. Nel ricordare le parole del narratore nel v.7 ed esagerando l’aumento numerico del popolo ebraico, lui, uno straniero, fa risaltare l’adempimento delle promesse divine.

  3. la preoccupazione di agire con scaltrezza si dimostrerà una follia, anche con il consiglio dei suoi più saggi consiglieri; la sua politica si rivelerà di volta in volta a vantaggio di Israele… Gli sforzi del faraone condurranno alla fine a una situazione esattamente opposta alle sue intenzioni.

Il faraone infatti non perde tempo nell’attuare la sua nuova politica. Le sue paure prendono la forma di un sistema oppressivo. I sorveglianti ricevono l’ordine di vessare Israele coi lavori forzati (prassi non insolita nell’antico Egitto). Ciò porta ad alcune riflessioni:

  1. a) la storia ha dimostrato che tali crudeltà hanno come risultato non solo un controllo più stretto sulla comunità, ma anche molte morti e dunque causano risentimento/ribellione/odio.

  2. b) la saggezza del faraone non si dimostra così efficace. Più Israele viene oppresso, più cresce. Anche qui la tattica del faraone, ironia della sorte, produce l’effetto di favorire il compimento delle promesse di Dio. Ma trasforma i timori d’Egitto in incubi!

  3. c) l’oppressione è il tema prevalente di questo racconto. Quelli che vivono nel benessere e nella libertà avranno difficoltà a comprendere la vera natura di una simile esperienza. La potranno solo immaginare. Chi invece ancora oggi patisce l’ingiustizia si sentirà più coinvolto col destino di questo popolo.

Il riferimento ai timori dell’Egitto indica anche che l’oppressione ha un effetto negativo tanto sugli oppressi che sugli oppressori. Tutti e due diventano meno umani.

Come dice Paulo Freire (Recife, 19 settembre 1921São Paulo, 2 maggio 1997: è stato un pedagogista brasiliano e un importante teorico dell’educazione.) (La pedagogia degli oppressi, 1970, pag. 43-44) ”…nel momento in cui gli oppressori disumanizzano gli altri e violano i loro diritti, essi stessi sono diventati disumani. (…) Stabilitasi, una situazione di violenza e di oppressione genera a sua volta un intero sistema di vita e di comportamenti per tutti coloro che vi sono coinvolti, oppressori e oppressi. Ambedue sono risucchiati dalla situazione e ambedue portano i segni dell’oppressione”. Va ricordato che l’oppressione ha sempre un carattere socio-politico ma non solo questo: la sua dimensione è tanto storica quanto cosmica nel senso che non coinvolge solo l’uomo ma l’intera creazione.

  1. d) In un regime di schiavitù i soggetti diventano oggetti

Gli ebrei che sono appena stati riconosciuti come popolo, si trovano in pericolo di perdere la loro identità. Essi sono schiavi di un altro, non un popolo che è tale per diritto. L’assenza di segni chiari di questa identità nella narrazione, includendo la stessa identità religiosa, rende più drammatico questo fatto. Il faraone concepisce infatti un solo popolo(il suo) e una sola eredità religiosa (la sua)! Prima che possa verificarsi una fuga da una tale situazione occorre che Israele riacquisti il senso della propria identità: questo sarà uno degli aspetti salienti della narrazione successiva.

Vv 13-14

Così essi obbligarono i figli d’Israele a lavorare duramente,

Amareggiarono la oro vita con una rigida schiavitù,

adoperandoli nei lavori d’argilla e di mattoni

e in ogni sorta di lavoro nei campi;

imponevano loro tutti questi lavori con asprezza.

Qui la ripetizione della parola lavoro/lavori/lavorare viene usata per alimentare la gravità di una situazione sempre più difficile. Le parole derivate dalla radice ebraica ‘abad (lavoro) sono usate quattro volte. La parola ebraica “perek” (duramente, con asprezza) ricorre due volte, sottolineando la durezza e la crudeltà del trattamento da parte degli egiziani.

Una domanda chiave del libro dell’Esodo è allora questa: chi servirà Israele?chi sarà il suo signore?

I versetti 13-14 sembrano dare una risposta più che chiara a questa domanda! Israele sta servendo il faraone. Essere al suo servizio però, significa durezza e schiavitù, essere privati della libertà di essere quel che ci si sente chiamati a essere. Non è questo il disegno di dio per la creazione. Dio vedrà questa schiavitù e si muoverà per liberare Israele, così che gli israeliti possano diventare i servitori di Dio. Soltanto nel servizio a Dio si può trovare un servizio senza schiavitù. Con Dio il servizio è libertà. Tuttavia Israele non è libero di fare tutto ciò che vuole; ma si muove da un certo tipo di servizio ,a un altro.

L’esodo non costituisce una dichiarazione di indipendenza, ma una dichiarazione di una dipendenza da Dio.

Questo testo prepara prepara la scena per quel tipo di Dio che egli è e che fra poco sarà coinvolto nella situazione di Israele. Dio è un dio che prende posizione. E’ il Dio degli oppressi, entra nelle loro situazioni difficili e colme di sofferenza per mettere le cose a posto. E’ un dio che è impegnato a portare il popolo dalla schiavitù alla libertà, un movimento dalle dimensioni spirituali e cosmiche; ma le vivide descrizioni della schiavitù e le esplicite realtà socio-politiche contenute nel testo devono indurci a comprendere la salvezza divina come molto più legata a tutti gli aspetti della vita del popolo.

3) Le figlie salvano i figli. Es 1, 15-22

Premessa: Per il racconto seguente che vede come protagoniste due donne, Sifra e Pua, due levatrici, ho voluto utilizzare la lettura che ne fa una donna Elisabeth Green, pastora della chiesa evangelica battista di Grosseto, che nelle sue numerose opere ha voluto mettere in evidenza il decisivo contributo delle donne nelle chiese e nelle comunità.

 Nella prefazione del suo libro “Dal silenzio alla parola”. Storie di donne nella Bibbia scrive:” Cerco di dare visibilità alle idee e alle attività di quelle donne tramandate dalla nostra stessa tradizione biblica, e, in modo specifico nell’Antico testamento. Infatti alcune delle donne che incontreremo in questi racconti sono diventate per noi pressochè invisibili, sconosciute: Agar, Tamar, Sifra e Pua, Abigail, la donna saggia di Tekoa, Hulda. Altre invece godono di una certa fama e possono essere intraviste di sfuggita da chi è fortunata: Sara, Anna, Miriam, Debora, Ruth. Scopriremo che molte volte esse agivano in favore della giustizia, della pace, e che il creato giocava un ruolo significativo nelle loro storie.

Nell’Antico Testamento si sono voluti rintracciare due grandi filoni teologici: creazione e liberazione. E si può subito constatare (anche se è stata tuttavia poco esplorata) la presenza femminile nella creazione. All’inizio della Genesi lo spirito o la ruach, vento di Dio, soffiava, o più suggestivamente, aleggiava sulle acque. Altri invece hanno preferito parlare della creazione per mezzo della figura femminile Hokmah o Sofia, la sapienza.

Ma poche volte ci si è fermati a mettere in risalto questa presenza femminile, o meglio, la presenza effettiva delle donne all’inizio di quell’altro mito fondante: l’Esodo, la liberazione del popolo d’Israele dall’ Egitto. Invece sono lì prima di quel Mosè che domina la nostra memoria. E per di più non appaiono al servizio del famoso liberatore, ma al servizio della liberazione di tutti i bambini di quel popolo oppresso: le due levatrici Sifra e Pua.

Sì, mentre il nome del Faraone importava poco al redattore del primo capitolo dell’Esodo (difatti non sappiamo chi fosse), i nomi di queste due donne sono stati tramandati: Sifra e Pua. Continuando a ignorarle commettiamo una grave ingiustizia. 

Il faraone e con lui l’Egitto (come abbiamo letto nei passi precedenti), cominciano ad avere paura di questi “immigrati ebrei”.” All’inizio ci erano utili, davano una mano all’ economia egiziana, ma adesso basta, stanno diventando troppo numerosi. Meglio essere duri con loro, sfruttiamo al massimo la loro forza lavoro e allo stesso tempo facciamo indebolire il loro popolo, così non saranno più una minaccia per il nostro paese e noi prenderemo due piccioni con una fava…”

Gli Israeliti in Egitto, un bel caso di xenofobia!

Ma il piano del faraone non funziona perché più gli Isaeliti erano oppressi, più si moltiplicavano e cresceva il loro numero, così che gli egiziani avevano paura di loro.

Bisogna fare qualcosa ancora di più drastico: il genocidio.

Ma il faraone essendo re, non vuole sporcarsi troppo le mani. Non vuole rischiare l’insurrezione di questi ebrei.

 Il suo deve essere un metodo più abile: attaccare chi non può difendersi, attaccare i più deboli, cioè ammazzare i neonati.

Ma come? Un intervento diretto da parte dei suoi soldati sarebbe troppo pericoloso; gli ebrei si potrebbero ribellare e ce ne sono così tanti… ci vuole un’altra tattica, uno stratagemma diverso.

Ecco le donne: chi sospetterebbe mai di due donne levatrici? Cosa meglio dell’arruolare alcune donne (le levatrici appunto) nei ranghi del potere maschile facendo sì che quel potere sembrasse innocente? Come avrebbero potuto ribellarsi le madri se sono delle donne ad ammazzare i bambini? Come spezzare meglio quella solidarietà tra donne, se non mettendole l’una contro l’altra?

Troviamo qui un ritratto quasi perfetto del ruolo delle donne negli schemi di chi detiene il potere.

Chi tramanda la tradizione di sottomissione della donna al potere maschile? Chi insegna alle donne a piacere agli uomini a non contrastarli mai? LE DONNE. Di madre in figlia, di generazione in generazione e così via. Così si perpetua il patriarcato, così il faraone pensa di arruolare Sifra e Pua nei suoi progetti micidiali.

Es 1,16” Quando assistete nel parto le donne ebree, fate attenzione al sesso del bambino. Se è un maschio dovete farlo morire; se invece è una femmina, lasciatela vivere.”

Ma perché uccidere i bambini maschi? Non sono sempre le femmine ad essere esposte? Non quando si tratta degli schiavi. I maschi sono ribelli potenziali; i maschi sono pericolosi. Le donne o la loro forza riproduttrice possono fornire agli egiziani una forza-lavoro meno pericolosa, più integrata. Il lavoro delle donne schiave è sempre stato anche questo, produrre una forza-lavoro docile. Mentre venivano uccisi i maschi prigionieri di guerra, le prigioniere donne erano sempre risparmiate per produrre più figli ai vincitori.” Se è un maschio dovete farlo morire, se invece è femmina, lasciatela vivere”.

Ma Sifra e Pua non si piegano così facilmente all’ordine del re. Non si lasciano intrappolare dagli schemi del patriarcato.” Non eseguiranno il comando del re, lasceranno in vita i bambini.”Es 1,17. Perché riescono a sottrarsi al ruolo di collaboratrici attribuito loro dal potere maschile? Semplicemente perché riconoscono un altro re che relativizza gli ordini del faraone. Riconoscono un altro Signore che spazza via come il vento i signori d’Egitto. Le levatrici preferiscono ubbidire a Dio.

 Anche alle donne è data una scelta. Anche nel patriarcato le donne sono responsabili delle proprie azioni, anche le donne possono dire “no” agli ordini dell’uomo. Sifra e Pua portarono avanti una scelta di disobbedienza civile a favore dei più indifesi: i bambini.

Il faraone a poco a poco se ne accorge. Le due donne sono chiamate a presentarsi davanti a lui. Il re chiamò le levatrici e disse loro:” Perché avete agito così e avete lasciato vivere anche i maschi?”.

Come tante altre donne delle Scritture, Sifra e Pua hanno la risposta pronta. Fingendo ingenuità, spiegano che non possono fare altrimenti. Non sa il signor faraone che le donne ebree non sono come le Egiziane. Sono più robuste, e quando arriva la levatrice, hanno già partorito? Es 1,19

Le due donne divertite di nascosto sorridono condiscendenti, perché il faraone, in quanto maschio, non sapeva niente delle cose più elementari della vita: non sapeva né di donne ebree né di donne egiziane; non sapeva niente del parto, delle donne che danno la vita, della nascita e dei misteri della creazione. Il faraone sa soltanto comandare la morte. La sapienza millenaria delle donne sconfigge il povero faraone ignorante. Ciò contribuisce ovviamente al piano di Dio. “Dio favorì l’opera delle levatrici e il popolo israelita crebbe e diventò sempre più numeroso” Es 1,20

Dio non è soltanto al di sopra di tutti i signori ma è anche l’Iddio che aleggia sopra le acque covando la vita. Si mette dalla parte di quella sapienza femminile che da anni e anni gestisce i misteri della vita e mette al mondo bambini e bambine.

Dal momento che esse gli avevano ubbidito, Dio concesse loro di avere una propria famiglia. Es 1,21

Dio stesso si rivela in quest’opera femminile di salvezza. Dio stesso agisce in questa sovversione civile delle donne che è insieme astuzia e coraggio. Come richiede la logica interna del racconto, Dio concede a Sifra e Pua, guardiane dei bambini e custodi del mistero della nascita, una propria famiglia.

Al principio dell’Esodo, al principio della liberazione c’erano anche due donne, due levatrici, Sifra e Pua.

Rashi di Troyes ci dice:D-o ricompensò le levatrici (Esodo 1, 20). E come le ricompensò?

Fece prosperare le loro famiglie (Esodo 1, 21). Famiglie di sacerdoti, leviti e dinastie regali che vengono definite con il termine di case, come è scritto: E Salomone costruì la casa del Signore e la casa del re (I Re 9, 1). La casa del Signore è riferito alla dinastia dei sacerdoti e dei leviti che discendevano da Jochevet (Shifrà), mentre la casa del re, cioè la dinastia regale, è discendente da Miriam (Pu’a) come è riferito nel trattato Sotà (Talmud Sotà 11b).”

(Rashi di Troyes, Commento all’Esodo, Genova, Marietti 2015)

 

 

 

 

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