venerdì, Aprile 19, 2024

Lectio Biblica: Esodo (incontro del 23 ottobre 2018)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Crescita e schiavitù in Egitto (Es 1-2)

Testi liberamente tratti da:

Fretheim T.E., Esodo, Torino, Claudiana, 2004;

Rashi di Troyes, Commento all’Esodo, Genova, Marietti, 2015

  • Il paese era pieno di ebrei (Es 1,1-7)

  • A chi servirà Israele (Es 1,8-14)

  • Le figlie salvano i figli (Es 1,15-22)

  • Le figlie salvano Mosè (Es 2,1-10)

  • Mosè incarnazione del futuro (Es 2,11-22)

  • Quando muoiono i re (Es 2,23-25)

4) Le figlie salvano Mosè (Es 2,1-10)

“Come mai Yochèved ha messo Moshè nel Nilo?

Domanda: Qual è il motivo per il quale Yochèved mise il piccolo figlio Moshè in una cesta nel Nilo? Sembrerebbe che con questa azione ella lo abbia condannato a una morte certa. Forse pensava che qualcuno avrebbe trovato la cesta e si fosse occupato di Moshè?

Risposta: Dato che il versetto non scrive quali erano le intenzioni di Yochèved la questione è aperta alle supposizioni. (…). L’inerzia avrebbe condannato Moshè ad una morte certa tramite le pattuglie egizie. Forse Yochèved sperava che Moshè sarebbe stato trovato da un egizio pietoso e di conseguenza sarebbe rimasto vivo. Perciò lasciò la figlia Miriam di guardia per vedere cosa sarebbe successo al figlio, sperando di poterlo poi rintracciare in un secondo momento.

Il commentatore biblico Ibn Ezra suggerisce due motivi per l’aver messo Moshè nel Nilo: il primo era che se suo figlio doveva morire, almeno ella non avrebbe dovuto vedere la scena dolorosa della sua esecuzione (per un episodio simile vedi Genesi 21:15-16 “E Hagàr gettò il figlio sotto uno dei cespugli ed ella andò e si sedette lontano, circa la distanza di due tiri di freccia poiché disse ‘non farmi vedere la morte di mio figlio’”. Il secondo motivo, ipotizza l’Ibn Ezra, è che forse Miriam profetizzò alla madre che questa era la cosa giusta da fare in quel momento.

Il Talmùd spiega che il Faraone aveva inizialmente decretato che tutti i bambini Ebrei venissero gettati nel fiume perchè i suoi astrologi avevano predetto che l’acqua avrebbe provocato la caduta del salvatore degli Ebrei (Questa previsione si realizzò, infatti Moshè non guidò il popolo Ebraico nella Terra d’Israele a causa dell’episodio con l’acqua: Num 20:1-13)  In base a questo, il Midràsh spiega che la madre di Moshè, che era consapevole del destino speciale del figlio, sperava che, non appena Moshè sarebbe stato posato nell’acqua, gli astrologi avrebbero visto che il Salvatore degli Ebrei era già stato gettato nell’acqua e che il decreto contro i bambini ebrei sarebbe stato annullato ed ella avrebbe potuto riportare suo figlio a casa. In effetti è ciò che è successo, ma a quel punto era troppo tardi, poiché la figlia del Faraone aveva già trovato Moshè.”

Rav Menachem Posner

 

Il racconto della nascita e della fanciullezza di Mosè è uno dei più familiari dell’Antico Testamento. Esso contiene la giusta misura di intrigo e di suspence, di capacità di rendere felici, di ironia, di compassione umana e, in ultimo, di un lieto fine.

Rashi ci dice: Il suo popolo (Esodo 1, 22). Questo può essere inteso nel senso che decretò ciò per tutto il suo popolo. Il giorno in cui nacque Mosè gli astrologi dissero: «È nato oggi il loro liberatore, non sappiamo se è nato da un egizio o da un ebreo, ma vediamo che subirà una sventura a causa dell’acqua»; perciò il faraone emanò un decreto che riguardava anche gli egizi, in quanto è scritto: Ogni maschio neonato [nell’edizione più antica di Rahi è scritto: Da un’egizia o da un’ebrea. L’equivoco nasce per il fatto che era nato da un’ebrea, ma era stato adottato dalla figlia del faraone] e non è precisato: Ogni bambino nato agli ebrei (Esodo 1, 22). Gli astrologi non erano in grado di sapere che le sventure di Mosè relative all’acqua non si riferivano alle acque del Nilo, ma a quelle di Merivà o Meriba (luogo della consolazione) (Shemòt Rabbà 1, 28; Talmud Sanhedrin 101b).

Ma la brutalità e la crudeltà del contesto vengono a volte messe in secondo piano, come l’invito alla violenza da parte del re contro i neonati ebrei maschi rivolto a tutto il popolo. “Allora il faraone diede quest’ordine a tutto il suo popolo: ogni figlio maschio che nascerà agli ebrei, lo getterete nel Nilo, ma lascerete vivere ogni figlia.” (Es 1, 22.)

E’ questo potenziale di violenza, e in particolare la suspence in esso implicita, a permettere la buona riuscita del racconto.

E, ancora una volta, sono le donne che annullano la violenza.

Esodo 1,22 costituisce il centro tematico, chiude il cerchio del racconto del capitolo 1, ponendo i “figli nel Nilo” a far da parallelo con l’unico figlio Mosè che viene tratto dal Nilo. Come Israele è sotto la minaccia dell’estinzione, così lo è anche Mosè. Per chi legge per la prima volta questo racconto, la domanda è: Che cosa accadrà a questo neonato?

Certamente, la famiglia di Mosè prende tutte le precauzioni per la sua sicurezza, ma i rischi sono evidenti.

Il versetto 5 “Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda. Essa vide il cestello fra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo” fa accrescere la preoccupazione: una donna della famiglia del faraone può scoprire il bambino e, pur provando una qualche compassione, consegnarlo alle guardie.

Il narratore utilizza il discorso diretto (ben quattro volte da parte della principessa) per tenere alta la tensione. Una prima volta indicando l’identità ebraica del bambino “E’ un bambino degli Ebrei”. Che cosa farà? L’intervento della sorella accenna a un futuro positivo, subito accolto dalla principessa che dice “Và!” Il successivo rimette il bambino nelle mani della sua mamma “Porta con te questo bambino e allattalo per me; io ti darò un salario”. Tutto ora va per il meglio. Il discorso finale vede l’adozione di Mosè da parte della figlia del faraone “Io l’ho salvato dalle acque”. Ciò garantisce che Mosè si trova in buone mani per il futuro.

Tre donne guidano il bambino alla vita attraverso la morte.

Ora è bello e stimolante per la nostra riflessione mettere in evidenza l’ironia del racconto.

  1. Lo strumento di annientamento scelto dal faraone, (il Nilo), è il mezzo per salvare Mosè.

  2. Come per Sifra e Pua sono ancora le donne a vanificare i progetti del faraone.

  3. La mamma salva Mosè obbedendo a un ordine del faraone (gettate i maschi ebrei nel Nilo!)

  4. Un componente della stessa famiglia del faraone ne mette in pericolo la politica salvando proprio colui che avrebbe portato Israele fuori dall’Egitto e distrutto la dinastia.

  5. La monarchia egizia ascolta il suggerimento dato da una ragazza ebrea! Si potrebbe pensare che la principessa fosse stata aggirata subdolamente perché accettasse la vera madre del bambino come nutrice, ma la sua compassione è palese.”Ne ebbe compassione e disse..v6”

  6. La madre di Mosè viene pagata coi soldi del faraone per fare proprio quello che ella più voleva fare!

  7. Mosè viene cresciuto per diventare una guida israelita proprio alla corte del faraone.

  8. La principessa dà al bambino un nome che lascia trapelare molto più di quanto ella stessa immagini (inclusa un’etimologia ebraica..Mosheh /da masha che in ebraico significa “trarre”): quello che lei ha fatto per Mosè , Mosè lo farà per tutto il popolo ebraico.

Quale peso ha questo elemento ironico?

Rivela l’ironia divina. Il paradosso sempre presente nelle narrazioni bibliche.

  • Dio utilizza i deboli, quel che è umile e disprezzato nel mondo per svergognare i forti. Anziché utilizzare il potere in termini mondani, Dio agisce mediante persone prive di potere reale; anzi esse sono difficilmente adatte all’esercizio del potere.

  • La scelta delle cinque donne nei capitoli 1-2 comporta per Dio un alto rischio di vulnerabilità; questo rischio è reale, in quanto queste persone possono fallire e Dio dovrebbe ricominciare daccapo. Ma esse se la cavano e fronteggiano con sagacia le spietate forme di un potere sistematico, e Dio, non è il soggetto delle loro imprese. (Non è Dio che fa!)

  • Il disegno di Dio per il futuro dei figli di Israele resta fortemente ancorato sulle spalle di uno dei suoi figli indifesi, un bambino abbandonato in un canestro di vimini. Chi avrebbe mai creduto che il Signore si sarebbe rivelato in questo modo?

  • Dio agisce infatti in tutta questa sezione in forme non intrusive, strane e vulnerabili.

Si può quindi dire che l’ironia alimenti un senso di speranza all’interno di quelle situazioni in cui Dio sembra assente. Quella che appare una situazione disperata in realtà viene riempita di possibilità positive. Ma questo vedere Dio nella Sua assenza, esige fede, anche in ciò che non si vede (“La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono Ebrei11,1).

Parallelismi tra esodo e genesi in questi primi capitoli.

I due primi capitoli dell’Esodo vanno interpretati in termini di attività creativa di Dio.

Analizzando il moltiplicarsi del popolo ebraico in Egitto abbiamo già sottolineato che c’era una corrispondenza con l’invito di Dio “andate e moltiplicatevi”.

Ora notiamo che la parola ebraica utilizzata per “canestro” è la stessa che indica l’arca di Noè.

-La madre del bambino “vide quanto era bello”: si tratta della stessa espressione utilizzata da Dio al momento della creazione “Dio vide che era cosa buona”.

– Mosè viene messo in parallelo con Noè. Il decreto del faraone nel quale si indica l’acqua come strumento di morte, è presentato in termini cosmici che, se avesse successo, sprofonderebbe ancora una volta il mondo nel caos primordiale (morte del popolo della promessa). La creazione di Dio/la crescita di Israele sarebbe stata stroncata nelle acque del Nilo.

-Sia Mosè che Noè sono mandati alla deriva nel caos delle acque. Ma essi sono le persone scelte nelle quali e tramite le quali la buona creazione sarà preservata. La salvezza di Mosè viene così ad avere una portata cosmica. (=universale/dio pensa alla salvezza di tutti gli uomini).

– il narratore può aver ripreso l’episodio da altri racconti dell’infanzia di persone importanti (ad esempio Sargon di Agade, re di Mesopotamia nel III millennio), ma questo riprendere forse è stato fatto proprio per evidenziare, al meglio, questo aspetto di valore mondiale/cosmico.

– In generale, il fatto che emergano guide per ogni società, è dovuto all’opera di Dio quale creatore. (“Ma non vi rattristate, non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita” dice Giuseppe ai fratelli” in Gen 45,5). Ma ancora una volta questa attività divina è non-intrusiva; come già abbiamo visto nel racconto di Giuseppe, Dio opera nei e mediante gli esseri umani, per conservare Mosè in vita. E questa azione umana è totalmente umana, non nasconde un’azione divina di controllo. Queste persone avrebbero potuto fallire e Dio avrebbe dovuto cercare altre strade.

-coerente con questo tema della creazione è il ruolo della figlia del faraone. Rashi ci rammenta: La figlia del faraone disse alla madre: «Prendi questo bambino»… (Esodo 2, 9). Ella, senza saperlo, profetizzò. Infatti l’espressione helichi è composta da due parole aramaiche: ha e shelichi: ecco ciò che è tuo, ovvero ciò che ti appartiene.

Una non israelita collabora in modo significativo all’opera divina per la vita e per la benedizione. In effetti, l’azione della figlia del faraone è in diretto parallelo con quella di Dio verso Israele. Anche ella “scese”, “vide” il bambino, “ascoltò il pianto, ed ebbe pietà di lui, lo trasse dalle acque e provvide per le sue necessità quotidiane (2,23-25; 3,7-8 !). Valori umani fondamentali, come la compassione, la giustizia e il coraggio, così come la rivolta attiva contro politiche inumane e crudeli, si rintracciano fra le creature di Dio indipendentemente dal loro rapporto con Israele; questo è il risultato dell’azione di dio nella creazione.

In ultima analisi non vi è nessuna differenza, nei risultati, tra gli sforzi umanitari di coloro che temono Dio e di quelli che non lo temono. Sia le levatrici ebree che la principessa egizia sono agenti di vita e di benedizione nell’ordine creaturale. Dio è in grado di far uso dei loro rispettivi doni e la comunità di fede accetta i loro sforzi.

-il tema della disobbedienza civile basato su una teologia della creazione, continua nella misura in cui queste donne seguono la pista aperta dalle levatrici: la madre nasconde il bambino per tre mesi, nonostante il decreto del faraone, cercando anche un’alternativa alla morte per affogamento. La principessa e le ancelle, nonostante la vicinanza del palazzo dal quale il decreto era partito, reagiscono alla presenza del bambino con una disobbedienza consapevole. La sorella, con l’astuta proposta di proporre la madre come nutrice, permette alle due donne di portare a termine con successo la loro resistenza non violenta alle autorità.

Il narratore mostra ancora quanto in queste circostanze le donne giochino un importante ruolo di guida (il padre di Mosè è assente dal racconto, mentre vi si registra una grande varietà di linguaggio al femminile). Nello sfidare un sistema dominato dai maschi esse rischiano la loro vita per amore della vita. Le figlie sono la salvatrici dei figli.

Circa il padre di Mosè Rashi ipotizza, sulla base della sapienza rabbinica: Sposò una ragazza (Esodo 2, 1). Il padre di Mosè aveva vissuto separato dalla moglie a causa del decreto contro i neonati ebrei. Ora la riprese per contrarre un nuovo matrimonio ed ella, fisicamente, era tornata ad essere una ragazza. In effetti ella aveva 130 anni perché era nata fra le mura, quando gli ebrei erano venuti in Egitto ove erano rimasti per 210 anni. Quando lasciarono l’Egitto, Mosè aveva 80 anni: se ne deduce che la madre rimase incinta a 130 anni e nel testo è ancora definita una ragazza della tribù di Levi [Rashi qui fa riferimento al midrash. Cf Talmud Sotà 12a; Shemòt Rabbà 1, 19; Talmud Baba Batra 119b).

5) Mosè: incarnazione del futuro Es 2,11-22

Questa sezione riporta tre episodi della prima parte della vita adulta di Mosè, facendolo entrare in contatto con tre diversi gruppi: Gli egiziani, il proprio popolo, i madianiti.

Ciascun episodio costituisce anche il passaggio all’episodio successivo, per identificare Mosè adulto come israelita, per anticipare avvenimenti – chiave della narrazione successiva e per caratterizzare Mosè, in particolare come uno che reagisce all’ingiustizia. Il punto di vista di Mosè non viene messo in evidenza. Veniamo a conoscere più cose di lui dagli altri che non da lui stesso. Non è ancora il personaggio che diventerà negli avvenimenti successivi.

Una delle prime domande che potremmo farci circa Mosè potrebbe essere questa: che cosa è accaduto al rapporto di Mosè con il proprio popolo? Era diventato così egiziano che quel rapporto si era dissolto?

Il narratore non perde tempo a mettere in chiaro come Mosè si identifichi con il popolo di Israele. Vediamo come.

 A  Mosè incarna Israele nelle sue proprie esperienze di vita

-infatti come il suo popolo a) entra in conflitto con gli egiziani, b) diventa il soggetto di un editto omicida del faraone, c) deve fuggire dall’Egitto nel deserto e d) deve sperimentare l’esilio in terra straniera.

In una serie di circostanze, quindi, Mosè assume su di sé il destino del suo popolo e ne anticipa il prossimo futuro. Egli diventa uno di loro in forza della sua propria esperienza personale.

B  L’azione di Mosè anticipa/adombra l’azione di Dio

-Mosè “vede” l’oppressione di Israele, (v11)   ma egli non è un osservatore disinteressato, e avendo visto (come Dio vedrà) la violenza subita dal suo popolo, prende l’iniziativa di fare quello che può in quella situazione.

Mosè colpisce l’egiziano. La prima “visione” di Mosè è un egiziano che percuote un ebreo, con colpi mortali. Mosè risponde a tono, come dimostra l’uso del verbo nakah (percuotere, colpire a morte) nei due versetti.

E’ importante tuttavia notare che l’ebraico nakah viene utilizzato anche per l’azione di Dio contro gli Egiziani (Ucciderò i loro primogeniti Es12,12 Se io colpissi saresti cancellato dalla faccia della terra Es9,15 le acque del Nilo si tramutarono in sangue…e gli egiziani non poterono più bere Es7,17-25). Quando Dio “colpisce”, il risultato è spesso la morte.

L’uso dello stesso verbo suggerisce che l’azione di Mosè non era ritenuta inappropriata dall’autore, ma che essa anticipa l’azione di Dio.

Mosè imprime un salto di qualità alla resistenza contro gli egiziani. Una certa evoluzione è già evidente quando si parte dalle levatrici, e si passa alle donne (principessa, sorella, madre); queste ultime sono più reattive. Per quanto tutte siano non-violente e indifese. Questo passaggio dalla non-violenza alla violenza nascosta (Mosè spera che non lo vedano!) può essere collegata al nuovo genere di oppressione egiziana. Ora si uccide apertamente lo straniero. Quindi ciò sembra richiedere una maggiore resistenza attiva. Un’esclation insomma di violenza.

-Siamo nel deserto di Madian. Mosè “salva”/”libera”le figlie di Jetro e procura loro l’acqua. Quando i pastori scacciano via le donne, come il faraone scaccerà via Israele. Mosè le aiuta e le libera. Lo stesso linguaggio viene impiegato per la salvezza e per la liberazione operata da Dio a favore di Israele. Che la liberazione comporti attingere acqua al pozzo è pure un’allusione alla necessità idrica di Israele nel deserto “Ecco io starò davanti a te sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà” Es 17,6.

-Mosè fronteggia un ingiusto. Proprio come Mosè fronteggia l’ebreo che aveva trattato iniquamente un altro ebreo, così Dio fronteggerà il faraone tramite Mosè.

C  L’azione di Mosè anticipa i problemi che una guida in Israele deve affrontare.

Nel v.13 “Il giorno dopo, uscì di nuovo e, vedendo due Ebrei che stavano litigando, disse a quello che aveva torto:”Perché percuoti tuo fratello?”” il narratore si sposta da Mosè a una disputa intra-ebraica. Gli argomenti relativi alla giustizia devono essere affrontati anche nell’ambito di una comunità di fede

Ma l’autorità di Mosè per intervenire viene messa in questione. L’accusatore diventa l’accusato. Per quanto sia un israelita non viene riconosciuto come giudice “Chi ti ha costituito giudice e capo sopra di noi? Pensi forse di uccidermi come hai fatto con l’Egiziano?” Es 2,14

Questo si riallaccia a quanto avverrà più tardi, al rifiuto degli Isreliti a dare ascolto a Mosè e alle controversie circa la sua autorità.

In generale questo linguaggio anticipa   i dialoghi tra Dio e Mosè circa le proprie capacità di farsi carico responsabilmente della vocazione.

v. 16

“Ora il sacerdote di Madian aveva sette figlie. Esse vennero ad attingere acqua per riempire gli abbeveratoi e far bere il gregge del padre”. Il sacerdote di Madian e le sue figlie compaiono sulla scena senza alcuna presentazione. Ancora si ripresenta il paradosso/ironia già sottolineato precedentemente: Mosè non è ben accetto nella comunità di Israele; qui invece viene accolto da stranieri, con grande ospitalità e gli viene anche data in moglie una delle figlie (anche se egli non dice una parola!) Israele non apprezza il suo gesto di giustizia a loro vantaggio; i madianiti lo apprezzano. Gli Israeliti si impegnano nell’accusare Mosè; le figlie di Jetro ne fanno pubblicamente le lodi. Quelli che si trovano all’ineerno della comunità sono offensivi; quelli estranei alla fede nel Dio di Israele manifestano rapporti genuini. Questo è in continuità con l’azione della figlia del faraone; il coinvolgimento di non-israeliti dimostra ancora una volta l’importanza della teologia della creazione (= Dio è padre di tutti, vuole salvare tutti). Inoltre il matrimonio di Mosè con Sefora integra un “estranea” nella comunità d’Israele, che perciò non è più genericamente pura; la sua guida amplia la famiglia cosi da includervi altri.

Il tema comune riguardante Mosè in entrambi gli episodi è la giustizia. Si sfidano tre tipi di ingiustizia, sperimentati da tre tipi di vittime e perpetuati da persone di tre popoli differenti.

 

             Ingiustizia             vittima                oppressore

v.2,11 colpi mortali                schiavo                  egiziano (padrone)

v.2,13 torto                            compagno             ebreo (suo pari)

v.2,17 privato dell’acqua         donna                  nomade (maschio)

 

La rete di relazione è singolare: non importa la vittima o l’oppressore o il tipo di ingiustizia. Il problema va risolto energicamente. Mosè non elabora questi argomenti ma le sue azioni parlano più fortemente delle parole. Il senso di giustizia di Mosè trascende le barriere di nazionalità,

di genere e di parentela. Egli non è indifferente al male da parte di chiunque sia commesso o quale che ne sia la vittima. Egli dimostra un interesse per la vita, in particolare per la vita dei membri più deboli della società e un’insofferenza verso le prepotenze dei più forti. E’ evidente anche il coraggio di Mosè che rischia la sua propria vita: un peculiarità necessaria per le azioni in favore di quanti patiscono l’ingiustizia.

Il senso di giustizia di Mosè deriva non dalla sua eredità ebraica, bensì dalla sua educazione egiziana. Questa è una significativa testimonianza dell’azione di dio nella creazione fra coloro che sono estranei alla comunità di fede.

Qui viene data inoltre una particolare attenzione al valore della vita umana e alle doti specifiche di ciascun individuo, che si pongono come base per le azioni intraprese a vantaggio di altri. Con le sue azioni infatti, Mosè porta avanti l’opera creatrice di Dio nel dare vita e benedizione.

La narrazione termina con una nota di incertezza. Mosè e Israele torneranno ancora ad incontrarsi? La salvezza promessa può giungere dal deserto? 

6) Quando muoiono i re Es 2, 23-25

“Vocazione di Mosè. Nel lungo corso di quegli anni, il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò dell’alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero.”

Questi versetti informano il lettore su quanto sta accadendo in Egitto e con Dio.

L’evoluzione dei fatti consiste nel fatto che il popolo ora innalza delle grida. Il quadruplice riferimento al “grido” di Israele e il duplice riferimento al suo stato di schiavitù in una notizia così breve attira l’attenzione del lettore.

Questa è la prima volta che si menziona il gemito d’Israele. E’ la dimostrazione di un cambiamento di comportamento da parte degli oppressi: essi ora si abbandonano a un gemito pubblico e danno un nome alla loro oppressione identificandola nella schiavitù.

“Allora Dio ascoltò” Il narratore ora sposta Dio al centro del racconto. Come abbiamo già detto in precedenza da Giuseppe in poi Dio non è mai stato coinvolto direttamente: la sua azione è stata non-intrusiva. Questo testo segnala un cambiamento.

La morte del re d’Egitto offre a Dio possibilità e opportunità fino a quel momento impensabili. In questo momento si realizza una speciale “pienezza dei tempi” che metterà Dio in grado di essere attivo in modo nuovo nel mondo e nei confronti di Israele. Da un punto di vista teologico si può affermare che, i cambiamenti nel mondo possono incidere sul modo in cui si può parlare di Dio in rapporto a quel mondo. Ancor di più, i cambiamenti nel mondo possono incidere nel modo in cui Dio è attivo in quel mondo.

Il lungo periodo dell’attesa in Egitto, dunque non è stato causato da una qualche indifferenza divina, ma dall’attesa da parte di Dio di eventi umani e naturali che rendessero possibile una fase di attività conforme a questo nuovo stato di cose.

Le grida di Israele “sono giunte fino a Dio”. L’espressione non ci dice se le preghiere fossero dirette a questo Dio. Infatti altri testi biblici (Deut 26,7) ricordano l’idolatria di Israele in Egitto. L’espressione significa soltanto che queste grida, alla luce delle mutate circostanze, sono state ascoltate da Dio in un modo nuovo rispetto a quanto non fosse successo in precedenza. La natura di questa attenzione viene espressa in quattro frasi sintetiche con Dio a far da soggetto:

Dio udì i loro gemiti

Dio si ricordò del suo patto con Abramo con Isacco e con Giacobbe

Dio vide i figli di Israele

Dio conobbe

Questi quattro verbi sintetizzano la mutata situazione di Dio.

1) Dio udì (sama’); questo non è un riferimento a una qualche nuova capacità uditiva divina come se Dio non avesse udito le loro grida in precedenza. Piuttosto ha il significato di “prendersi cura, di ascoltare e rispondere”.

2) Dio si ricordò (zakar); questo non è in riferimento a uno stimolo per la memoria divina, come se Dio avesse dimenticato le promesse fatte. Ricordare significa qui, essere attivamente attento a ciò che viene ricordato, si tratta di un senso di obbligo divino nei confronti di un precedente impegno assunto.

3) Dio vide (ra’ah); con questa espressione no si fa riferimento a un contatto oculare. Significa muoversi verso l’altro con amabilità e simpatia.

4) Dio conobbe (yada’); anche qui non si tratta di una “qualche conoscenza intellettuale”, come se Dio recepisse alcune nuove informazioni o una nuova comprensione di quanto sta avvenendo. Significa condividere un’esperienza con un altro in modo l’esperienza altrui possa essere indicata come esperienza propria.

Questi verbi indicano che Dio ha assunto un nuovo “punto di vista” rispetto alla situazione esistente. Il contesto per quanto riguarda sia gli egiziani sia gli israeliti, è cambiato in modo tale che le intenzioni creazionali di Dio per il mondo ora possono prendere una svolta.

Questa breve narrazione termina facendo sorgere una domanda nella mente del lettore: cosa farà Dio? Cosa accadrà?

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