sabato, Aprile 20, 2024

Boko Haram, un incubo lungo dieci anni

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Una scia di sangue della quale ancora non si intravede una fine. Il movimento jihadista nigeriano, rafforzato dal sostegno dello Stato islamico, continua a minacciare i civili e le istituzioni nell’est del paese e oltreconfine.

 

Il 30 luglio del 2009 il governo federale dello stato di Bauchi proibì una manifestazione della setta sunnita Boko Haram provocando lo scoppio di una rivolta nella capitale, l’omonima città di Bauchi, che si diffuse negli stati di Yobe, Borno e altri del nord-est della Nigeria. Gli scontri durarono diversi giorni e almeno 300 persone persero la vita solo a Maiduguri, la capitale di Borno.

Il governo nigeriano represse i disordini con un’operazione di polizia su larga scala. Un gran numero di persone furono arrestate, incluso il leader della setta, Mohammed Yusuf, che secondo un portavoce della polizia, fu ucciso insieme al suocero Alhaji Baba Fugu e diversi altri membri di Boko Haram, tutti giustiziati sommariamente dalle forze di sicurezza, durante un tentativo di evasione dalla prigione.

A questo punto, Yusuf aveva già nominato il suo successore: Abubakar Shekau che proclamò un jihad all’ultimo sangue contro il governo centrale di Abuja. Sulla scia di questo episodio, Boko Haram si trasformò in un’organizzazione jihadista sunnita di orientamento salafita, che nel settembre 2010 compì la sua prima azione, attaccando in forze il carcere di Bauchi e liberando 721 dei 759 reclusi al suo interno. Il gruppo entrò così in aperto contrasto con il governo centrale di Abuja nell’intento di trasformare la Nigeria in uno stato islamico senza cristiani, dove imporre la sharia.

 

Migliaia di vittime civili

Da allora, il gruppo estremista ha portato a termine migliaia di attacchi suicidi, incluso uno nel quartier generale della polizia nella capitale Abuja. Gli attentati sempre più brutali di Boko Haram, che colpiscono spesso i civili, diffondono paura e terrore nella regione. Le violenze in dieci anni hanno causato circa 32mila vittime e costretto 1,9 milioni di persone a lasciare le loro abitazioni.

Gran parte della popolazione civile ha accusato il governo e i militari di non essere in grado di garantire la sicurezza dei nigeriani. Per questo, nel 2013, un gruppo di giovani di Maiduguri ha deciso di prendere in mano la situazione per proteggere la popolazione. Lo ha fatto fondando la Task force civile congiunta (Civilian joint task force – Cjtf) nota anche come yan gora («giovani con i bastoni»), perché i membri non sono armati solo di pistole, ma anche di pugnali, machete, bastoni e spranghe di ferro.

Nella repressione contro Boko Haram sono stati uccisi circa 600 appartenenti alla Cjtf. Un tributo di sangue che ha consentito ai vigilantes di epurare i miliziani jihadisti da Maiduguri e da altre grandi città del Borno. Tuttavia, il Cjtf è stato anche accusato di aver commesso violazioni dei diritti umani, inclusi abusi fisici ed esecuzioni arbitrarie di presunti combattenti del movimento terrorista.

Nel 2015, Muhammadu Buhari, ex generale dell’esercito nigeriano, ha battuto Goodluck Jonathan alle elezioni presidenziali, promettendo di sconfiggere l’organizzazione terroristica entro due anni. Grazie all’offensiva della Multinational joint task force (Mnjtf), la forza d’intervento congiunta composta da militari di Nigeria, Ciad, Camerun, Niger e Benin, il presidente Buhari è riuscito a contenere l’insorgenza Boko Haram e liberare ampie zone dello stato di Borno, che all’inizio del 2015 erano ancora controllate dai jihadisti.

I successi militari di Buhari contro Boko Haram, sono stati però di breve durata perché negli ultimi due anni il gruppo sembra aver riguadagnato forza e territorio. Gli osservatori locali affermano che i combattenti hanno rifornito i loro arsenali con armi provenienti principalmente dalla Libia, forse anche dalle ex roccaforti dello Stato islamico. Non a caso, alla fine del 2018, l’organizzazione ha dato una dimostrazione della sua forza militare costringendo alla fuga 500 soldati della Mnjtf dal loro quartier generale a Baga.

 

La scissione

Importante ricordare, che all’inizio di agosto 2016 Boko Haram si è diviso in due fazioni: una guidata dal leader storico Abubakar Shekau, l’altra, conosciuta come la Provincia dello stato islamico in Africa occidentale (Iswap), capeggiata da Abu Musab al-Barnawi (figlio del fondatore di Boko Haram, Mohammed Yusuf). L’Iswap nell’agosto dello scorso anno è stata oggetto di una faida interna che ha causato l’eliminazione di due dei tre suoi massimi esponenti: Mamman Nur Alkali e Ali Gaga. E lo scorso aprile, ne è seguita la destituzione di Abu Musab al-Barnawi dalla leadership del gruppo, che adesso è guidato da Abu Abdullah Ibn Umar al-Barnawi. Una nomina che sarebbe stata decisa direttamente dal califfo dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, e sarebbe stata riconosciuta da tutte le cellule dell’Africa occidentale e centrale.

Queste lotte interne spesso hanno creato disorientamento nel gruppo dirigente dell’organizzazione e prodotto aspettative di una sua sconfitta definitiva da parte dell’esercito nigeriano. Sconfitta che però sembra sempre più problematica da tradurre in realtà, perché non è facile porre fine a un conflitto contraddistinto da componenti etniche, umanitarie, militari, settarie e anti-governative.

E se dopo il fallimento delle trattative per una possibile amnistia e i deludenti risultati dei programmi di riabilitazione per i miliziani, il governo di Abuja non troverà nuove soluzioni per porre fine all’insorgenza del gruppo, rischia di dover contrastare la minaccia jihadista per altri decenni.

 

Marco Cochi, Nigrizia, 31 luglio 2019

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