sabato, Aprile 20, 2024

Tornare a Gesù di Nazareth (Jon Sobrino)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).
TORNARE A GESU’ DI NAZARETH
 

 

Ci introduciamo al Vangelo di Marco con una lettera, che ogni anno Jon Sobrino, teologo salvadoregno, scrive al suo amico Ellacurìa (“Ellacu”, affettuosamente) assassinato il 16 novembre 1989, insieme ad altri confratelli gesuiti e amici. Tornare a Gesù di Nazaret, vuole essere la sfida e l’impegno di questi giorni, accompagnati dalla Parola del Vangelo e dalla Prassi della comunità delle Piagge, che ci ospita.

 


5 luglio 2004

Caro Ellacu,
quindici anni dopo il tuo martirio ti scrivo di qualcosa che mi sembra importante e necessario: “tornare a Gesù di Nazaret”. La necessità per la Chiesa è evidente; e per noi cristiani, oltre che una necessità è certamente una benedizione. Ma penso che possa anche essere molto utile che Gesù si renda presente nel nostro mondo, anonimamente o in qualsiasi altra forma, perché il mondo ha urgente bisogno di una nuova linfa per vivere. Cercherò di spiegarmi meglio più avanti.


Ricorderai che da giovani abbiamo imparato che, quando i santi volevano rinnovare la chiesa e guarirla dai suoi mali, tornavano sempre a Gesù e alla sua sequela. San Francesco d’Assisi non voleva essere altro che un repetitor Christi e Sant’Ignazio di Loyola chiedeva insistentemente “di conoscere intimamente il Signore che per me si è fatto uomo, perché più lo ami e lo segua” (Esercizi Spirituali, n. 104). “Tornarono” a Gesù e ciascuno di loro ha scatenato una “rivoluzione” che è arrivata fino ai giorni nostri.


Ebbene, risulta che non soltanto i santi e i cristiani, ma anche molti altri hanno trovato in Gesù una profonda ispirazione per la loro vita e i loro ruoli, a volte rivoluzionari. Gandhi fu affascinato dalle beatitudini di Gesù (e diceva anche che gli unici a non aver capito il Vangelo son i cristiani. Con le dovute precisazioni, chissà che, nel guardare all’Occidente, un asiatico profondamente religioso come lui non avesse qualche ragione …). Roger Garaudy, quando in Europa ebbe inizio il dialogo tra cristiani e marxisti, negli anni successivi al concilio, si rivolse ai cristiani con queste parole: “Voi, gente di chiesa, restituiteci Gesù!”. Milan Machovec, marxista cecoslovacco, scrisse un libro intitolato Gesù per gli atei in cui sostiene che Gesù ha sempre rappresentato una protesta contro il potere costituito, e aggiunge che la sua storia appartiene a tutti, anche ai ribelli, agli eretici e agli atei, ai marxisti e ai comunisti degli ultimi anni.


Simone Weil, ebrea, che non entrò mai nella chiesa cattolica, racconta che nel 1938 passò la settimana santa a Solesmes, e poco dopo ebbe una illuminazione che cambiò la sua vita: “Cristo stesso discese e s’impadronì del mio cuore”. Sono parole che non vanno intese come pietismo, perché è risaputo che Simone Weil si consacrò anima e corpo alla causa degli operai e morì per aver coscientemente rifiutato di mangiare meglio di loro. Racconta anche che in un piccolo villaggio di pescatori in Portogallo ebbe improvvisamente la certezza che il cristianesimo è per antonomasia la religione degli schiavi. Questo, a mio parere, non ha niente a che vedere con Nietzsche, e penso che rientri nella linea dell’amore di Gesù per i poveri e gli oppressi, per gli operai, che lei conobbe così da vicino. Era l’opzione per i poveri. 

In teologia, ovviamente, molti autori mi hanno parlato di Gesù Cristo, ma ne cito qui due che non soltanto spiegavano la sua umanità e divinità, ma che “tornavano a Gesù”, al cuore della sua realtà. Di Dietrich Bonhoeffer ricordo il proclama: “Seguimi è la prima e l’ultima parola di Gesù a Pietro”, cosa che egli stesso mise in pratica nella lotta contro il nazismo fino ad essere assassinato e a morire martire. J.B. Metz insiste appassionatamente sulla “compassione” e sull’ “Autorità di coloro che soffrono”, e auspica una cristologia dei sinottici, cioè di Gesù di Nazaret.

Dall’Asia, Raimon Panikkar insiste sul Cristo cosmico, ma in un dibattito lo sentii affermare che “al momento della verità, per il cristiano il problema non è Gesù versus un Cristo cosmico, ma il farsi carico della croce come fece Gesù”. E, dallo Sri Lanka, Aloysius Pieris afferma che in Asia nessuno ha problemi con Gesù di Nazaret, e aggiunge che “il Cristo Totale” è Gesù con tutti i poveri di questo mondo. Ellacu, questa litania potrebbe continuare, ma concludiamo con le parola di Gonzales Faus: Gesù di Nazaret, memoria sovversiva, memoria soggiogante.

Gesù di Nazaret, dunque, si mantiene vivo. Ma voglio aggiungere che, dogmi a parte, ciò non potrebbe essere così evidente in un mondo in cui tutto cambia a una velocità vertiginosa e in cui alcuni paradigmi seppelliscono altri senza quasi lasciare traccia. E ciò avviene anche nelle chiese: un Gesù sulla linea del vangelo di Marco può essere seppellito e, al suo posto, può riapparire un Cristo mellifluo e annacquato. Il problema non è soltanto di teologia, ma di vita, di vita ecclesiale e anche storica. Per verificarlo, basta paragonare il Gesù liberatore delle comunità di base, lodato da Puebla (n. 173), con il Gesù che appare oggi nella cosiddetta musica cristiana, in cui non risuona molto né l’ingiustizia né la giustizia di questo mondo, né l’oppressione né la liberazione dei popoli. Di Cristo si parla e si canta molto, ma del Gesù di Nazaret che passò facendo il bene, difese i poveri del popolo, affrontò Caifa e Pilato, morì in croce, vittima dei peccati dei potenti, e a cui Dio rese giustizia riportandolo in vita, si parla poco. Ebbene, è di questo Gesù che abbiamo urgente bisogno nel nostro mondo.

Prima di tutto abbiamo bisogno di un cardine attorno al quale la realtà possa girare bene. Di cardini ce ne sono molti, ma spesso lasciano che sia il male a girare per il mondo. Potere e piacere, individualismo e superbia, nelle persone; imperialismo, prepotenza, schiacciare e abbattere, nelle istituzioni, sono cardini cattivi. Ma ci sono anche cardini buoni: la bontà, la compassione in tutte le sue forme, la verità per conoscere di più e per mettere la conoscenza al servizio dei deboli, la fermezza per non cedere dinanzi alle difficoltà, l’amore, infine, e l’amore più grande di donare la vita per i fratelli.


La sequela di Gesù, dunque, debitamente storicizzata, anche senza nominare Gesù nelle società secolarizzate, è un cardine attorno al quale possono girare bene persone, chiese e società nel nostro mondo. Vediamolo brevemente. 

Che ci piaccia o meno, dobbiamo scegliere tra vivere nella realtà o nella irrealtà. Secondo Gesù, bisogna stare nella realtà più reale, che in linguaggio teologico è la sarx, la carne povera e debole che divenne parola di Dio; e, in linguaggio storico, sono le maggioranze povere di questo mondo. E non soltanto bisogna stare nella realtà, ma bisogna abbassarsi ad essa.

A ciò si contrappone il vivere nelle isole di abbondanza del Primo Mondo, eccezione e aneddoto sul pianeta, cioè il docetismo, il vivere nell’apparenza, nell’irrealtà, l’eresia più antica del cristianesimo. Significa ugualmente vivere nell’arroganza che Paolo denunciava, che è ciò che avviene quando il Primo Mondo proclama, a parole o, peggio, dandolo per scontato: “II reale siamo noi”. In questo modo non può esistere una famiglia umana, ma soltanto una specie, in cui gli umani si relazionano tra loro darwinisticamente.


Seguire Gesù è un’altra cosa. Comincia con l’“essere reale” in questo mondo e con l’“abbassarsi” al mondo reale, quello degli affamati e delle vittime. Di questo mondo reale, il Primo Mondo non sa molto e lo considera semplicemente in quanto costituito da vari paesi con grandi risorse naturali e potenziale turistico. Seguire Gesù comincia con il riconoscimento dell’esistenza e l’apprezzamento dei popoli di quel mondo, nostri fratelli e sorelle, che non sono specie sfortunate, ne “gente in via di diventare esseri umani”, per usare lo stesso linguaggio eufemistico, e macabro, di “paesi in via di sviluppo”.


Dobbiamo scegliere tra la compassione e l’indifferenza, la giustizia e l’oppressione. Secondo Gesù, il compito fondamentale di ogni essere umano è quello di umanizzare la realtà a partire dalla verità e dalla misericordia primordiale di fronte alla sofferenza della vittime. E questo lo si fa anche a partire dall’obbedienza – parola scioccante, non molto gradita in Occidente – all’ “autorità di coloro che soffrono”. Umanizzare è guarire, dare da mangiare, cacciare demoni, accogliere e consolare deboli, denunciare e dire la verità, generare comunità e celebrare intorno a una mensa, annunciare cieli nuovi e terra nuova. Confluisce con l’ “altro mondo possibile”, ma ben spiegato. Si tratta anche, ovviamente, di cambiare, abbastanza radicalmente, strutture economiche, politiche, favorevoli agli armamenti, culturali. Umanizzare è anche essere aperti perché il mistero di Dio ci mostri il suo volto.


Dobbiamo scegliere tra farci carico della croce delle vittime o prenderne le distanze. Secondo Gesù, distanziarsi dalla realtà è il principio della negazione dell’umano e del divino. Di fronte ai cambiamenti dobbiamo camminare con coerenza; di fronte alle croci, con fermezza e con disponibilità a farcene carico, e questo in un mondo in cui abbonda molto più Pilato, che condanna a morte, che cirenei che aiutano a portare, o evitare, la croce. Gesù ci chiede di essere disposti a farci carico della croce dei poveri e degli oppressi, prodotto dell’ingiustizia che ricade anche su coloro che lottano contro quest’ultima.


Il mondo disprezzerà come assurda e masochista questa proposta, anche se accetta senza battere ciglio e perfino glorifica altre croci: “la croce e la sofferenza necessarie” per impadronirsi del petrolio, del coltan, dell’acqua, degli spazi strategici; e, potendo, accetta anche che a rimetterci la vita siano i poveri, i latini e i neri, mentre i sofisticati armamenti arricchiscono immensamente le imprese del nord.


Chiediamoci con sincerità: sono molti, nel mondo reale, occidentale e democratico, quelli disposti a farsi carico della croce degli africani, asiatici e latinoamericani? Quanti sono disposti a finire su di una croce, come Gesù, perché la compassione, la verità e la giustizia dominino su questo mondo? Scrive Leonardo Boff: “Giudicando il nostro tempo, le generazioni future ci tacceranno di barbari, disumani e spietati per la nostra enorme insensibilità di fronte alle sofferenze dei nostri stessi fratelli e sorelle”.


In questo contesto di realtà bisogna domandarsi che senso abbia chiedere che “torni Gesù”. Non deve essere proselitismo religioso in società secolari, ne sottile imposizione cristiana ad altre religioni. Ciò che può invece essere è l’attesa anelante di qualcosa che deve “venire” o “tornare” in questo nostro mondo perché sia semplicemente umano.


Sarebbe una grande perdita e una stupidaggine impedire che Gesù di Nazaret torni solo perché è qualcosa di religioso, ecclesiale o semplicemente privato, come a volte avviene, per esempio, in programmi di cooperazione governativa, di ONG… E bisognerà chiedersi se le democrazie, che soddisfano invece i requisiti di essere pubbliche e secolari, si stanno dando da fare, se ce la stanno mettendo tutta per condurre il mondo verso una direzione più misericordiosa. E se stanno costruendo una ragione più compassionevole. Il mondo ha urgente bisogno di queste cose.


Non bisogna dunque temere che torni Gesù di Nazaret, la sua mistica, il suo pathos, la sua lucidità, in un mondo secolare. Non bisogna neanche temere di renderlo presente nel mondo delle religioni, anche se dovrà passare molto tempo prima che ci perdonino del tutto l’imperialismo religioso dei cristiani d’Occidente. Ma, personalmente, non credo che il dialogo religioso sia possibile senza un centro di gravità che agglutini e verso il quale convergano le religioni. Ciò evidentemente esige prima il dialogo su tale centro di gravità, cosa in cui non sembra abbiamo fatto grandi progressi. Ma nel nostro mondo la compassione, accompagnata dalla bontà e permeata di contemplazione, può ben fungere da centro di gravità. Questo è centrale in Gesù. Inoltre, come afferma Gonzàlez Faus, non serve soltanto il dia-logo, ma anche la dia-prassi, e può essere soltanto quella della misericordia, guidata da una mistica a occhi aperti. È a questa dia-prassi che Gesù chiama con l’invito alla sequela.

Ellacu, questa mi sembra più una piccola lezione che una lettera. Concludo con tre piccoli appunti.


Il primo è che mi mancano sempre più i maestri del sospetto che ci fecero tanto soffrire, ma che tanto ci illuminarono: Freud, Marx, Sartre… Sembrava che ci togliessero la fede come si toglie la pelle. Ma fu un bene. Ne siamo usciti guadagnandoci. Dio ci ha mostrato un volto più vero e accogliente, più giusto e apportatore di speranza. Ebbene, oggi non vedo che ci sia molta gente che abbia il coraggio di sospettare, non dei grandi idoli – come si suole fare – ma più sottilmente della democrazia, della prosperità, come se fossero intoccabili… Non vedo molti maestri che parlino di queste cose, come se la democrazia e la prosperità fossero al di là di ogni sospetto. Tutto ciò che è – senza sapere scientificamente di che cosa si stia parlando – democrazia e prosperità è buono. Sembra che non aprano gli occhi. Credo dunque che Gesù di Nazaret possa avere le funzioni di uno di quei maestri che ci fanno sospettare della prosperità, dell’offerta di felicità, dell’utopia del successo, come ci vengono proposte.


Il secondo è che i grandi, cristiani e, a modo loro, i non cristiani, hanno sempre unito due amori: Gesù e i poveri. Hanno seguito Gesù e hanno amato il povero. Diverse volte ho provato a chiedere a gente povera chi fosse monsignor Romero. La risposta è stata unanime: “Monsignore ha proclamato la verità, ha difeso noi poveri, e per questo lo hanno ucciso”. Questo è ciò che monsignor Romero aveva ipostaticamente unito all’amore di Gesù di Nazaret.


Infine, voglio ricordare qualcosa che ti ho sentito dire nel 1972 su Gesù di Nazaret, quello che vogliamo far tornare. Due giovani gesuiti fecero la loro professione religiosa e tu li incoraggiasti alla sequela di Gesù, il che non mi sorprese. Ma aggiungesti qualcosa che mi sorprese, sì, e cioè che dovevano vivere già come risorti nella storia. Credo che con ciò volessi dire che nella sequela di Gesù si deve notare ciò che c’è già di pienezza e di vittoria nella resurrezione di Gesù. 

Lo riassumo in tre cose.


La libertà, non quella che guarda a favore dell’uno, ma a favore degli altri: libero è colui per il quale nulla  è di ostacolo per compiere il bene. Libertà è vincere i vincoli della storia, la paura, l’egoismo.


La gioia, non il puro divertimento e intrattenimento, ma il gustare la bontà di essere umani gli uni con gli altri e gli uni per gli altri. Questa gioia è accompagnata dalla sofferenza, ma supera la tristezza.


La speranza, che non è semplice aspettativa, né temperamento ottimista, né realizzazione di calcoli che porterebbero a ciò che desideriamo. È la convinzione che in fondo alla realtà ci sia più bene che male, che l’amore è più forte della morte, come scrisse Ana Manganaro, religiosa e medico statunitense che per anni curò fino all’esaurimento malati e feriti a Chalatenango, durante il conflitto.

Questo è quanto volevo dirti, Ellacu, in questo anniversario un po’ più solenne: l’auspicio che lasciamo entrare nelle nostre vite, nelle chiese e nella storia – insieme con altri e altre, di diverse provenienze e religioni – Gesù di Nazaret.

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