giovedì, Aprile 25, 2024

I limiti del pontificato di Francesco – Parte I (Massimo Faggioli)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Papa Francesco rischia di perdere il sostegno delle persone che desiderano il suo successo e eviti alla Chiesa di cadere nelle mani di chi è contrario al cambiamento.

È un momento importante, perché l’ottantatreenne sembra non capire che molti di coloro che credono fortemente nei suoi sforzi di riformare la Chiesa sono sempre più delusi.

Il settimo anniversario della sua elezione a vescovo di Roma, il 13 marzo, è coinciso con il picco della consapevolezza della pandemia da coronavirus. Era impossibile in quel momento immergersi in complesse analisi di pontificato.

Ma ora, vivere rinchiusi per limitare la diffusione del Covid-19 è diventata la nuova normalità, e sarà così per un certo periodo di tempo in molti paesi. E questo offre l’opportunità per cercare di osservare con maggiore attenzione ciò che è successo nel pontificato di Francesco in questi ultimi mesi.

La pandemia ha cambiato alcune dinamiche chiave nella Chiesa cattolica. Innanzitutto, c’è stata una focalizzazione perfino maggiore sul papato e sul suo isolamento, che esprime bene la sua solitudine istituzionale.

La straordinaria leadership spirituale di Francesco in questi momenti molto difficili ha confermato, ancora una volta, che il suo pontificato non è tanto una parte di un’epoca di cambiamenti, quanto piuttosto il pontificato di un protagonista attivo nell’evidente cambiamento di epoca.

Ma recentemente sono successe alcune cose che preoccupano. E di cui non è facile parlare. Almeno per quelli di noi che credono che il papa gesuita stia offrendo alla Chiesa con la sua leadership di servizio ciò di cui essa ha bisogno proprio adesso. O per quei cattolici che, nei sette anni trascorsi, si sono sentiti maggiormente parte di un viaggio verso un nuovo modo di essere Chiesa, nell’unica e stessa Chiesa.

Ciò che è successo recentemente

Francesco sta offrendo un contributo inestimabile alla tradizione viva della Chiesa nei termini di forgiare un nuovo modo di rivitalizzare ed attualizzare gli insegnamenti del Concilio Vaticano II (1962-1965).

Ha contribuito a liberare l’insegnamento morale cattolico dalla sua camicia di forza ideologica e ha trovato un nuovo equilibrio tra legge e misericordia. Ha riabilitato teologi che erano stati costretti al silenzio e puniti dalla politica romana successiva al Concilio Vaticano II. Ha anche guidato la Chiesa nel cattolicesimo globale.

Oltre a questo, il suo concentrarsi su problemi socio-economici (compresi quelli relativi all’ambiente), in un periodo in cui la globalizzazione è in profonda crisi, è stato profetico. Riguardo al dialogo con l’islam del mondo nominalmente cristiano, ha certamente fatto passi avanti.

E ha riposizionato geopoliticamente la Chiesa verso il continente asiatico in rapido sviluppo, specialmente verso la Cina.

Questi sono risultati già consolidati della sua eredità.

Ma durante lo scorso anno, è successo qualcosa di preoccupante. Si ha l’impressione che durante in questi molti mesi il dinamismo del suo pontificato stia avvicinandosi al suo limite. E questo non solo secondo teologi coinvolti nei dibattiti sulla riforma della Chiesa.

Ma, almeno a me, è apparso evidente che le importantissime intuizioni spirituali di Francesco manchino di una chiara struttura sistematica tale da poter essere inserita in un quadro teologico ed in un ordine istituzionale.

Prendiamo le donne, per esempio. Tutti conoscono il modo informale in cui papa Francesco parla delle donne e le parole non politicamente corrette che talvolta usa per descrivere il loro ruolo nella Chiesa e nella società. Ma recentemente ci sono stati segnali più allarmanti.

Due eventi recenti potrebbero indicare uno spostamento nel suo pontificato.

Il primo è stato quanto accaduto nel periodo intercorso tra il Sinodo sull’Amazzonia dell’ottobre 2019 e la pubblicazione di Querida Amazonia nel febbraio 2020. E il secondo è stata la sua decisione di nominare nuovi membri per una seconda commissione pontificia sullo studio del diaconato femminile.

Questi due eventi possono essere letti in maniere anche molto diverse, a seconda di dove ci si colloca nell’ampio spettro del modo cattolico di credere e di pensare.

I gruppi anti-Francesco si sono pubblicamente rallegrati e si sono sentiti giustificati per ciò che è successo.

Ma coloro che negli ambienti ecclesiali e teologici hanno sostenuto Francesco fin dall’inizio del suo pontificato si sono sentiti in un certo qual modo traditi. Nonostante ciò, hanno continuato a stare dalla sua parte senza mostrare eccessivamente lo choc e la delusione che provano.

Il papato è giudicabile solo sul lungo termine. E questo vale in modo particolare per il papato di Francesco. Ma ci si chiede se ci possa essere effettivamente un lungo termine per una Chiesa che avrebbe bisogno proprio ora di decisioni su problemi istituzionali e strutturali.

Genesi del blocco

Gli ambienti pro-Francesco sono comprensibilmente riluttanti a parlare della crisi che sta bloccando il pontificato in questo momento. Personalmente, credo che tre cause siano alla base di questa crisi.

– La prima è lo stile di Francesco nel governare la Curia romana.

La sua tendenza a seguire fondamentalmente un approccio di non intervento ha prodotto alcuni effetti collaterali negativi. Ad esempio, ha incoraggiato i sostenitori degli ambienti liturgici tradizionalisti, come si è visto recentemente con il nuovo decreto riguardante la “Forma straordinaria” della messa.

Questo è particolarmente doloroso per i sostenitori più ardenti del papa, perché fin dalla sua elezione nel 2013 aveva chiarito in maniera assoluta che egli credeva che il tradizionalismo liturgico fosse incompatibile con una Chiesa “che va avanti”.

Invece, non solo ha permesso che la scelta tradizionalista continuasse, ma non ha fatto nulla per impedire agli importanti uffici ed officiali del Vaticano di incoraggiarla. Questo ha peggiorato la situazione, specialmente per alcune chiese locali.

Il papa può anche ignorare la Curia romana, ma non lo possono fare altri cattolici – tra cui vescovi e preti. Vedremo se e come questa situazione cambierà con l’annunciata costituzione apostolica mirante a riformare la Curia romana, già più volte posticipata.

– La seconda cosa che ha affrettato la crisi attuale nel pontificato di Francesco è stata nello scorso anno la pressione di vescovi e cardinali che ha messo a rischio la legittimità del papa.

Non mi riferisco ad estremisti che sono diventate figure marginali in una religione cattolica virtuale, come l’arcivescovo italiano Carlo Maria Viganò. Parlo di cardinali che hanno un ruolo chiave nella Curia romana, o che lo hanno avuto fino a poco tempo fa.

Nel febbraio 2019, ad esempio, il cardinale tedesco Gerhard Mueller aveva pubblicato un “Manifesto” in sette lingue rivolto a tutto il mondo. Questo documento dell’ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede (2012-2017) minacciava una pubblica correzione di Francesco, sostenendo che la maggior parte dei vescovi era preoccupata della sua ortodossia.

Leggiamo la prima riga del “Manifesto”: “Dinanzi a una sempre più diffusa confusione nell’insegnamento della fede, molti vescovi, sacerdoti, religiosi e laici della Chiesa cattolica mi hanno invitato a dare pubblica testimonianza verso la Verità della rivelazione”.

Poi c’è il cardinal Robert Sarah, che Francesco ha nominato a capo della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti nel 2014. Verso la fine del 2019 il cardinale ghanese ha “arruolato” Benedetto XVI (in maniera ancora poco chiara) per avere il suo contributo per un libro controverso in difesa del celibato presbiterale obbligatorio.

La scelta del periodo per l’uscita del libro non è stata casuale. Infatti il libro è stato pubblicato mentre papa Francesco stava ancora completando l’esortazione apostolica successiva al Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia – nel quale molti dei partecipanti avevano votato a favore del cambiamento della disciplina del celibato.

Col senno di poi, il discorso del papa alla conclusione della riunione del Sinodo avrebbe potuto essere visto come l’inizio di un accordo con i tradizionalisti. In quella allocuzione finale – pronunciata il 27 ottobre 2019 nell’aula del Sinodo – Francesco richiamò quei cattolici “elitari” che si fissavano su piccoli argomenti “disciplinari” invece di considerare il “quadro d’insieme”.

Alla luce dell’esortazione apostolica post-sinodale, Querida Amazonia, si potrebbe facilmente leggere l’opposizione del papa a quelle “élite” come il suo respingimento della proposta di riformare il celibato presbiterale.

E potrebbe anche essere la ragione per cui ha respinto la proposta di dare alle donne un ruolo ministeriale nella Chiesa. In realtà, entrambe le proposte avevano incontrato un forte sostegno tra coloro che avevano partecipato alla preparazione del Sinodo, compresi i vescovi.

Non credo, come altri, che Francesco abbia ceduto per paura in seguito alla pressione dei tradizionalisti. Ma storicamente, una pressione così forte su un papa è sempre un elemento di contesto da prendere in considerazione per comprendere la traiettoria di un pontificato (ad esempio, per quello di Paolo VI durante il Vaticano II).

Un elemento ulteriore è l’assoluzione dell’Alta Corte australiana, il 7 marzo, del cardinale tradizionalista George Pell, dall’accusa di abusi sessuali. Questo ha incoraggiato i cattolici che stavano spingendo per un’agenda di restaurazione – non solo a Roma, ma anche e specialmente nel paese natale del cardinale.

Questo avviene nel momento in cui la Chiesa in Australia sta progettando un processo sinodale cruciale – un concilio plenario – benché l’attuale pandemia stia causando dei ritardi.

Da notare comunque che il processo a Pell non rientra in questo equilibrio. Perfino importanti cattolici australiani che si oppongono al cardinale su molte questioni ecclesiali hanno dichiarato pubblicamente (e con buona ragione) che non sarebbe mai stato processato per tale crimine senza prove più consistenti.

– Il terzo ed ultimo fattore che ha contribuito alla crisi di questo pontificato è in relazione con i limiti della teologia di Francesco quando parla di clericalismo e di donne.

Fino ad ora, la maggior parte delle persone credeva che il papa argentino, indipendentemente dal suo modo di esprimersi derivante dall’uso di una seconda lingua o di espressioni particolari, fosse fondamentalmente aperto a cambiamenti disciplinari e a sviluppi compatibili con una comprensione organica della tradizione.

Ma dopo l’ultimo anno – con Querida Amazonia e la decisione della nuova commissione sul diaconato femminile – alcuni si chiedono se il pontificato di Francesco sia giunto al limite delle possibili riforme.

Al termine dei suoi lavori, la prima commissione sul diaconato femminile ha steso una relazione finale. Che però non è mai stata resa pubblica. Ci si chiede a buon diritto il perché. In una Chiesa sinodale è giusto aspettarsi una certa dose di trasparenza.

La formazione di una seconda commissione è stata annunciata l’8 aprile. Nessuno, tra i sette uomini e le cinque donne che compongono questo gruppo, proviene dal sud del mondo. Questo è molto difficile da capire e perfino impossibile da giustificare, specialmente per un papa che ha fatto tanto per la crescita della comprensione della dimensione globale della Chiesa cattolica.

Papa Francesco dice che è necessario ascoltare tutte le parti prima di prendere una decisione. E questo è assolutamente giusto. Purtroppo, è difficile ritenere che questa seconda commissione rappresenti differenti visioni.

Il pontificato si trova in una situazione molto seria. Che cosa ci sta dicendo questa situazione? È ciò che prendiamo in considerazione nella seconda parte.

 

Massimo Faggioli in “La Croix International” del 14 aprile 2020 (traduzione: www.finesettimana.org)

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