martedì, Marzo 19, 2024

“Un percorso a spirale”, la resistenza nella teologia femminista. Intervista a Elizabeth Green

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Un percorso a spirale.Teologia femminista: l’ultimo decennio (Claudiana 2020), della teologa e pastora battista Elizabeth Green, vuole offrire un quadro dello stato dell’arte della teologia femminista all’alba del terzo decennio del XXI secolo, attraverso dieci capitoli che trattano tutti i temi che possono contribuire a intaccare sempre di nuovo (di qui la metafora della spirale) il sistema monolitico androcentrico che ancora struttura il pensiero teologico, e non solo.

Innanzitutto riformulando l’immagine del Padre, visto come la donna della parabola del vangelo di Luca che cerca la dracma perduta (cap.15). Cioè un Padre declinato al femminile, che inizia a smontare uno dei più resistenti pregiudizi anche linguistici per cui Dio sarebbe maschio, e che per amore non esclude nessuno. Innanzitutto non esclude la donna e con essa tutti coloro che vengono considerati gli ultimi da ogni società che tende a creare le proprie norme identitarie.

Spesso coincidenti in ambito cristiano con il maschio, bianco, benestante, eterosessuale. Per estensione l’inclusione prospettata da questa “teologia della liberazione” si apre a tutte le diversità sessuali, omosessuali, bisessuali, transessuali e più in generale a tutta la dimensione queer. Perché il centro si faccia margine, piuttosto che l’inverso onde evitare “l’ipotesi che l’accoglienza da parte delle chiese delle persone LGBTQ sia un fattore della normalizzazione delle diversità sessuali”.

La donna è il simbolo di tutte le diversità, e l’identità maschile si è storicamente costruita in opposizione a essa. Per smontare tale identità, e la violenza insita, è necessario che l’uomo-maschio riconosca la propria fragilità e vulnerabilità, la sua identità non assoluta. Punto di partenza per definire una pratica non violenta, che invece è più nelle caratteristiche della donna maggiormente consona a porsi in relazione, senza per questo appiattirsi nella dimensione della cura, che spesso diventa uno stereotipo in cui rinchiuderla.

Da queste considerazioni ne conseguono le interessantissime disamine sulla maternità, sulla sessualità, sul corpo delle donne. Quest’ultimo visto non come oggetto del dominio maschile, bensì come “spiritualità incarnata“. Infine da ricordare come SophiaSapienza, Parola, sia femminile.

Fondamentale per la donna, e per ogni teologia declinata al femminile (e non solo), è la dimensione della resistenza. Mai ritirarsi anche davanti a fallimenti, ma continuare con rinnovato vigore, gettandosi sempre nella mischia.

Vorresti innanzitutto brevemente presentarti ai lettori di Gionata

Mi chiamo Elizabeth Green, sono inglese di nascita, italiana di adozione e ho una formazione teologica sia protestante che cattolica. Sono pastora presso l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia da oltre trent’anni. Da molto tempo mi occupo di teologia femminista e dalla fine del secolo scorso anche dell’interfaccia tra femminismo, sessualità lgtbq+ e cristianesimo avendo fatto parte anche della Commissione Fede e Omosessualità delle chiese battiste, metodiste e valdesi.

Tra i vari libri che ho pubblicato il mio preferito, oltre (ovviamente) a Un percorso a spirale, rimane Il Dio sconfinato (2007). Con Cristina Simonelli (presidente del Coordinamento Teologhe Italiane di cui faccio parte) ho scritto Incontri. Memorie e prospettive della teologia femminista (2019).

Da che esigenze nasce la stesura di questo nuovo libro?

Come le mie ultime due pubblicazioni, Il Filo tradito (2011) e Padre nostro? (2015), anche questo libro è fondamentalmente un lavoro di raccolta. La mia sensazione è che negli ultimi vent’anni la teologia femminista gira sempre intorno agli stessi temi. Tuttavia nell’ultimo decennio tali temi sono stati riproposti in un contesto molto diverso da quello che diede origine al movimento delle donne degli anni Settanta del secolo scorso. Mi sembra utile che coloro che cominciano ora a occuparsi di questioni tipo donne e chiesa o chiesa e persone omosessuali sappiano di non essere sol*, e di non dovere cominciare da zero.

Perché proprio un certo ordine di argomenti (violenza, non violenza, diversità, sessualità, maternità, corporeità femminile, linguaggio) nel percorso a spirale che delinei?

Il primo capitolo dà il là biblicoteologico a ciò che segue, l’ultimo è un capitolo molto personale, retrospettivo sul percorso fatto finora. Termina addirittura con la sparizione dell’autrice (!) Gli altri capitoli sono in ordine più o meno cronologico, ma mostrano come i temi si ripetano e s’implichino a vicenda. Per esempio, non avevo mai trattato la maternità, ma è un tema (soprattutto nel contesto italiano) difficile da eludere per il peso che assume (nel bene e nel male) nella vita delle donne.

Ho molto apprezzato il riferimento alla presa d’atto della vulnerabilità come passaggio indispensabile perché l’identità maschile abbandoni la propria pretesa di assolutezza e di dominio. Leggendoti, ritieni che la coscienza del limite sia la caratteristica fondamentale dell’essere umano

Direi che, nella visione cristiana, il limite è sicuramente una delle caratteristiche fondamentali umani. Tuttavia l’umano non è universale e neutro ma, come sappiamo, condizionato da tutta una serie di fattori sociali, economiche e via dicendo. Per la questione del limite penso che valga ciò che negli anni Sessanta le donne dicevano del peccato inteso come hybris o “eccesso di sé”. Per alcun* il limite va recuperato e riconosciuto mentre per altr* il limite (etero o autoimposto) è da superare. Per tale approccio dialettico possiamo rifarci a Kierkegaard.

Nei capitoli 4 e 5 parli molto di diversità, concetto cui come comunità LGBTQ siamo sensibili. A esso si lega il tema dell’accoglienza, specie nelle chiese. Come lo inquadreresti?

Ovviamente è un argomento antico e complesso. Credo che l’apostolo Paolo ci dia qualche aiuto in quanto attraverso l’immagine della chiesa-comunità come corpo cerca di tenere insieme unità, pari dignità, diversità. Mi sembra importante sottolineare che nella sua visione utopica (?) l’accoglienza non sia da una parte sola versa un’altra ma sia reciproca in quanto siamo tutt* divers*. Immagina una chiesa in cui non c’è chi abbia un dominio su altri in base al genere, all’orientamento sessuale, al sapere o potere accumulato e via dicendo.

Nel tuo pensiero a mio giudizio si percepisce l’impronta della teologia riformata. Parli di giustificazione per fede (per grazia di Dio), e non per opere, che non fa distinzione di etnia, di condizione sociale, di diversità sessuale, rendendoci tutti uguali dinanzi a Dio. Parlare di giustificazione per grazia non crea qualche problema di libertà personale?

Probabilmente tale impronta spicca perché siamo abituat* a pensare alla chiesa, alla teologia e persino al cristianesimo nella sua forma cattolica (romana) eventualmente considerandola normativa. Tuttavia, rifacendomi al discorso di prima, il “cattolicesimo” come lo conosciamo in Italia non è che una delle diverse declinazioni del cristianesimo.

Richiamo la giustificazione per grazia mediante la fede (oggetto tra l’altro di un noto accordo tra chiesa luterana e chiesa cattolica) fondamentalmente per due motivi. In primo luogo, perché “accettare che io sono accettata” (Paul Tillich) ha giocato un ruolo importante nella mia vita di donna, a livello esistenziale. In secondo luogo, perché mi preme sottrarre il dibattito sulle chiese e le persone omosessuali al battibecco sui singoli versetti biblici per collocarlo all’interno di qualcosa più ampio, una struttura portante per così dire del vangelo.

Tant’è che poi faccio una controprova della mia tesi esaminando la prassi di Gesù riportata nei vangeli. Per quanto riguarda la tua domanda sulla libertà, risponderei sulla scia di Paolo in Galati e Romani e di Gesù in Giovanni, che è propria l’accettazione incondizionata da parte di Dio a renderci liberi e libere. Possibilità che siamo altrettanto liberi di accettare o di rifiutare.

Perché usi alla fine del percorso il termine resistenza per indicare la caratteristica fondamentale di ogni teologia femminista, o di ogni teologia che voglia opporsi a un pensiero dominante. E non utilizzi quello di resilienza?

L’ultimo capitolo al quale ti riferisci parte dal testo del filosofo catalano La resistenza intima, al centro di un dibattito nel quale dovevo inserirmi. Non mi è sembrato il caso di sostituire la parola da lui scelta con la parola più à la mode resilienza. Anche perché mi sembrava perdere una delle definizioni che egli dà al termine, quella politica. E questa mi porta alla tua ultima domanda

Proprio in riferimento al termine resistenza, ritieni che la teologia femminsita abbia negli anni assunto un sufficiente peso politico…

Ovviamente ci sarebbe molto da discutere sulla frase “sufficiente peso politico” e la risposta dipende dal posizionamento di ognun* di noi dentro e fuori delle strutture ecclesiastiche. Ma, per farla breve penso proprio di no. Infatti, è per questo che alla fine del libro esorto ognuna e ognuno di noi di proseguire il proprio percorso a spirale.

Affinché la visione che ci muove prenda piede e abbia un peso politico “sufficiente” , Perciò non mi rimane che ringraziarti e augurare a te e a chi rende possibile e frequenta la Tenda di Gionata buon lavoro e buon cammino!

 

Dialogo di Di Giusi (Giuseppina) D’Urso con la teologa e pastora battista Elizabeth E. Green, 26 aprile 2020

 

www.gionata.org

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