venerdì, Aprile 26, 2024

Tre anni senza Paolo Villaggio: sociologo, filologo, filosofo e travet fantozziano (Vieri Peroncini)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Paolo Villaggio sapeva che i nomi sono importanti. I nomi sono cose, le parole sono cose: ci definiscono, non coincidono esattamente per quello che siamo, ma ci definiscono, ci accompagnano per tutta la vita, ci proteggono anche. È per questo che in guerra si spersonalizzano i nemici, per questo non diamo un nome agli animali che vogliamo mangiare, per questo Springsteen canta «quando sei diventato ricco abbastanza, ricco abbastanza da dimenticare il mio nome». Non era un caso, assolutamente, che il ragionier Ugo Fantozzi, tra le tante angherie subite, dovesse vedere continuamente storpiato il proprio nome nelle maniere più disparate (Fantocci, Bambocci), non a caso con nomi anche beffardi e dalla valenza sminuente.

Suonava quindi come una specie di nemesi che tra i tanti coccodrilli e articoli in memoriam che hanno affollato i media, che “Fantozzi in paradiso c’è andato veramente“, ci sia stato qualcuno capace di sbagliare il suo appellativo, attribuendogli un titolo di studio che non era suo, e non poteva esserlo, scrivendo che Paolo Villaggio aveva interpretato l’ingegner Ugo Fantozzi. Ma Fantozzi non era ingegnere, era ragioniere, ed il titolo era parte integrante del suo nome, la parte più intima della sua natura. Ugo Fantozzi, in realtà, non esisteva: esisteva il ragionier Ugo Fantozzi.

Perché le parole sono importanti, e Paolo Villaggio era un genio, tra le altre cose, della parola: mi si sono intrecciati i diti, la nuvola da impiegato, il megadirettore naturale, il Grand. Uff. Figl. Di Putt., l’Ufficio Truffe e Raggiri, la contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, la babbuina, la Megaditta (che ricorda Bristow, e la facciata della megaditta fantozziana), la Coppa Cobram, la partita scapoli-ammogliati, 92 minuti di applausi (perché «la Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca»), e tanto altro ancora, soprannomi, appellativi, nomignoli e locuzioni, sono entrati dritti nell’immaginario collettivo e nel linguaggio parlato italiano, immediatamente e in pianta stabile. Chi, passando anche casualmente nei pressi di un campo da tennis, non ha recitato magari mentalmente la scenetta tra Fantozzi e Filini, Villaggio ed il grande Gigi Reder?

Paolo Villaggio, forse il personaggio che ha dato più termini ed espressioni alla lingua italiana dopo Alessandro Manzoni, a partire da quel 1971 in cui uscì il suo primo libro (che però trovava origine in articoli pubblicati sull’Europeo tratti a loro volta di monologhi televisivi), intitolato semplicemente Fantozzi, bissato da Il Secondo Tragico Fantozzi, ci ha lasciati il 3 luglio 2017, al policlinico Gemelli dov’era ricoverato per una salute sempre più precaria. Nato a Genova, il 30 dicembre del 1932, in 84 anni Paolo Villaggio ha avuto una vita artistica e personale che si sono spesso intrecciate come i diti, e che lo hanno visto interagire con Fabrizio de André, Marco Ferreri, Lina Wertmuller, Gianni Agus, Gigi Reder, Gaber, Cochi e Renato, Maurizio Costanzo, Nanni Loy, Pupi Avati, Comencini, Fellini, Pozzetto, Monicelli e ovviamente Luciano Salce (con cui porta per la prima volta sul grande schermo, nel 1974 la maschera di Fantozzi). Era attore, regista, sceneggiatore, doppiatore, scrittore, giornalista, vincere il Leone d’oro alla carriera.

Su Paolo Villaggio si scriveranno libri e tesi di laurea, e molto di sensato, in fondo, si è già detto: perché appare anche a menti molto semplici che non abbiamo avuto a che fare con un semplice comico, ma semmai un umorista che sapeva toccare i tasti dell’ironia, della parodia, della satira e del grottesco. Con Fantozzi e con Giandomenico Fracchia (quello dell’iconica poltrona-sacco del designer Piero Gatti, che diventava un sottile strumento di tortura mobbizzante , ma anche col Dr. Jeckyll e gentile signora, o col signor Robinson) ha esplorato le miserie in tutti i modi: le miserie collettive e le idiosincrasie di una Nazione che spesso è talmente stereotipata da arrivare ad essere la parodia di se stessa, e le miserie individuali di un Uomo senza qualità e senza dirittura morale, vessato sino al mobbing ante litteram (infatti oggi viene citato dagli studi di genere) ma per il quale non si riesce a provare una empatia completa.

Perché Villaggio è diventato Fantozzi, ma Fantozzi è figlio anche delle prime apparizioni di Villaggio, che era un cattivissimo conduttore a Quelli della domenica, infinitamente prima delle ruvidezze di un Bonolis e di un Mammucari: evolvendosi, Villaggio-Fantozzi è diventato Paperino, vessato sì, ma in fondo anche pronto a vessare, debole e inetto coi forti, forte e crudele coi deboli; capace di qualche opaco gesto di ribellione e qualche moto di onestà intellettuale entrambi inutili e/o tardivi, ma in fondo «la quintessenza della nullità», come disse Villaggio stesso del suo personaggio.

Con l’aggettivo fantozziano dobbiamo convivere quotidianamente ma, nonostante la crudeltà con cui Paolo Villaggio ci dipingeva, noi lo amavamo e ammiravamo: non così tanto si amava lui stesso, fuor di dubbio un genio, un artista poliedrico dotato di immenso talento, una figura capace di lasciare segni indelebili sulla cultura e sul costume di un’intera nazione, che da solo con se stesso si alzava di notte ad ingozzarsi di spaghetti freddi direttamente dal frigorifero, ad ammazzarsi di bignè. Il cibo è uno dei temi ripetuti in Fantozzi, che finisce nella polenta in settimana bianca, viene venduto a tranci al mercato del pesce, subisce una dieta nazista che termina con un’abbuffata di polpette; un’ossessione per Villaggio, autodistruttivo quanto una rockstar, perturbato per un’intera vita di eccessi e disturbi alimentari ad attestare in uno dei modi più tristi ed odiosi che lui no, nonostante tutto quello che la vita gli aveva elargito, non si amava. Quasi che il bello della vita si riducesse in fondo ad «una frittatona di cipolle, familiare di Peroni gelata e rutto libero», questa vita che non ci ama e non ci vuole e scorre lenta senza uno scopo.

Il bello di una vita che non vale la pena di essere vissuta, naturalmente, secondo il sociologo e filosofo nichilista Paolo Villaggio, che infatti, molto dopo la crocefissione in sala mensa, dopo aver realizzato che «Ma allora m’han sempre preso per il culo», è terrorizzato da una reincarnazione che gli fa esclamare «No, daccapo no!».

Tranquillo, ragioniere, basta cartellini da timbrare, basta “23 barrato” da prendere al volo: si goda la pensione e ci tenghi un posto accanto a lei, se può.

 

Vieri Peroncini per MIfacciodiCultura, 3 luglio 2020

tratto da: http://www.artspecialday.com/9art/2020/07/03/addio-a-paolo-villaggio-sociologo/

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